Recensione di Carlo Tomeo
Tu pensi a un concerto di musiche di Enzo Jannacci, eseguito in suo onore. Sì le sue musiche ci sono ma non è stato un concerto nei termini classici del termine, perché Jannacci non era un cantautore che poteva far ridere, sorridere, immalinconirti e straziarti anche l’anima, a seconda del tuo stato d’animo del momento. E in più, nelle sue canzoni, non raccontava, con la storica ironia che si ritrovava incollata addosso, solo storie di derelitti e barboni. Ti faceva sentire come era fatta la vita ammesso che tu non lo sapessi già: nel bene e nel male (più nel male). Eppure ti provocava la risata in una storia dolorosa come “L’Armando” o come “Il palo della banda dell’ortica” e anche la celebre “Vengo anch’io, no tu no” ti dava alla fine, se eri un attento ascoltatore, la tristezza che prova solo chi è destinato a restare indietro perché rifiutato, a perdere e tante volte non ce la fa a sopportarlo.
Jannacci era Milano, era la scighera (la nebbia), era l’idroscalo, era Vincenzina che amava la sua fabbrica, era el barbun “che insegue un sogno d’amore” e Milano è ancora adesso parte di tutte queste cose. Per questo Jannacci le è sempre caro.
Stefano Orlandi, grande attore del Teatro ATIR Ringhiera e altrettanto grande cantante ha portato in scena non solo Jannacci, ma tutto quello che a lui è riconducibile (e ne poteva forse portare ancora) Ha portato il giornalista Beppe Viola, l’amico d’infanzia di Jannacci che, gli ha scritto delle canzoni e Jannacci gli dedicò quando, Beppe morì, la bella canzone “L’amico”.
Ha portato lo scrittore filosofo Franco Loi e soprattutto le sue poesie in un milanese a volte arcaico, a volte ricco di neologismi in una sintassi scorretta dal punto di vista linguistico ma che rendeva perfettamente lo stile sproloquiante del proletariato oppresso. Per lui il suo milanese era una vera lingua, che comprendeva anche parole di altri dialetti ma pregne di significati. E anche qui Jannacci ha appreso parte dei suoi contorti versi che però avevano un senso reale del significato che gli voleva dare e che non si prestava a dubbi.
Jannacci ha anche avuto momenti esilaranti specialmente da giovane: si pensi al periodo in cui faceva parte dei Rock Boys con Adriano Celentano al santa Tecla, alla sua partecipazione al Festival del rock and roll del Palazzo del Ghiaccio, al duo dei Due Corsari, dove l’altro corsaro era Giorgio Gaber e naturalmente suonavano e cantavano Rock .
Tuttavia l’humus dello spettacolo visto al Castello Sforzesco e voluto da Stefano Orlandi ha privilegiato soprattutto il secondo Iannacci, quello che faceva ridere a denti stretti e trattava della povera gente quella che parlava lo stresso milanese, anche mediato, come si è scritto, da Franco Loi. Per non parlare di Giovanni Testori, dal linguaggio anch’esso nella sua veste dialettale, spesso incomprensibile nella singola parola e che diventava comprensibilissimo quando veniva inserita nella frase. Il Testori malato d’amore incompreso, che non aveva timore di affrontare versi volgari ma che avevano una loro pregnanza di significato. Anche lui idealmente vicino a Jannacci nelle storie di vita e d’amore vissute entrambi male.
Ultimo a essere citato è il Walter Waldi che amava ambientare le sue commedie in zone della Milano popolare, quella dei “povera gente” e anche quella dei delinquenti, dei carcerati. Si pensi alla bellissima “Faceva il palo nella banda dell’Ortica”.
E non c’erano le persone che hanno contribuito con i loro testi a delineare la figura di Jannacci. Per esempio per parlare degli operai che muoiono sul lavoro, Stefano Orlandi ha cantato la canzone “Construção” di Chico Buarque de Hollanda che Iannacci ha inciso in italiano
Ma il momento magico è stato quando Orlandi ha cantato “L’era tardi”, sapendo bene esprimere lo stato d’animo fatto di vergogna e disperazione quando si ha bisogno di denaro “per pagà ‘na tratta!”
che scade il giorno dopo e non si osa chiedere un prestito.
Il trio che ha accompagnato Stefano Orlandi si è dimostrato all’altezza della situazione, accompagnando con ricercata convinzione il cantante che poteva essere ormai considerato inglobato nel gruppo facendolo diventare un quartetto eccellente. Alla fine dello spettacolo c’è stato naturalmente il bis, anzi il doppio bis: E il primo non poteva che essere “Vengo anch’io, no tu no” con l’accompagnamento del pubblico.
Il secondo bis è stato la famosa canzone “Ho visto un re” di cui Dario Fo aveva scritto il testo e Paolo Ciarchi la musica ed è cantata per metà in italiano e per l’altra metà in milanese. Enzo Iannacci la incise come lato B di “Bobo Merenda” nel 1968. La canzone popolarissima, è cantata da un personaggio solo e poi il pubblico gli fa da coro.
Lo spettacolo, che si era aperto con una punta di malinconia, è terminato con una canzone allegra che racchiude tuttavia un senso di asservimento al potere della povera gente.
https://www.youtube.com/watch?v=C3A737B-2QA
Roba minima, s’intend!:
Concerto malincoMico
di e con Stefano Orlandi
e con Massimo Betti, alla chitarra
con Stefano Fascioli, al contrabbasso
con Giulia Bertasi, alla fisarmonia
canzoni di Enzo Jannacci
Contaminazioni letterarie di Beppe Viola
Franco Loi, Giovanni Testori
e Walter Valdi
Scene Maria Spazzi
Costumi Federica Ponissi
Luci Alessandro Verazzi
Produzione ATIR
in scena alla Sala d’Armi del Castello Sforzesco di Milano
Serata unica.
Si ringrazia Maurizia Leonelli dell’ufficio stampa
Bellissima recensione. Complimenti sig. Tomeo
Bellissima recensione dello spettacolo “Roba minima, s’intend!: Concerto malincoMico”, dove il cantautore Enzo Jannacci si fa “presente”. Complimenti, sig. Tomeo.