
Ricci/Forte tornano a teatro con uno spettacolo incentrato sulla parola e il ricordo
Easy To Remember
Off/Off Theatre, 17 dicembre 2017
Sarà in scena fino al 23 dicembre 2017 all’Off/Off Theatre, nuovissimo e sofisticato spazio romano dedicato al teatro e sorto in via Giulia, Easy To Remember, il più recente lavoro della straordinaria coppia Ricci/Forte, forse la più dirompente della scena teatrale contemporanea italiana e mondiale.
Easy To Remember è ispirato alla figura eccezionale della poetessa russa Marina Cvetaeva, praticamente sconosciuta al grande pubblico in Italia.
Un rischio, forse, quello di mettere in luce un personaggio così poco conosciuto, che può costituire un limite alla fruibilità dello spettacolo, ma che invece rappresenta uno stimolo per lo spettatore attento, curioso, se non appassionato, a informarsi su cosa abbia mosso i due drammaturghi a rivolgere la loro attenzione e di conseguenza quella del pubblico, a questa complessa, affascinante e profonda donna.
In termini molto sommari, Marina Cvetaeva fu una poetessa e scrittrice russa tra le più rappresentanti del simbolismo. Nata da famiglia benestante e colta, cominciò a scrivere poesie a soli sei anni. Fu introdotta presto negli ambienti letterari più prolifici e stimolanti del tempo, dove conobbe quello che decise subito sarebbe divenuto suo marito per tutta la vita e così fu. Legata per sempre a suo marito, Marina aveva costante bisogno di affetto, di amore e di contatto. Fu una donna che amò tantissimo senza mai possedere o essere posseduta dall’oggetto di questo amore, ma lasciandolo andare ogni volta e volendo essere sempre lasciata libera.
Marina Cvetaeva fu anche una donna, moglie e madre, che soffrì tantissimo. A causa dei feroci stravolgimenti politici del tempo, tra cui la rivoluzione russa del 1917, la Cvetaeva patì la povertà, la fame, l’indigenza più nera e l’umiliazione di essere abbandonata anche da quelle cerchie di intellettuali che prima tanto la esaltavano. Una figlia morì piccola per denutrizione in un orfanotrofio in cui fu costretta ad abbandonarla. Emigrò e girò l’Europa in cerca di lavoro, ma tutti le volsero le spalle. Tornò in patria, ma per lei non ci fu alcuna possibilità di riscatto. L’altra figlia, Alja, fu arrestata e deportata nei gulag. Il marito, dapprima ufficiale in guerra e poi cospiratore contro Trotsky, fu arrestato e fucilato. Marina continuò a girare in cerca di un posto dove stare e lavorare, ma dovunque andasse la aspettavano solo disperazione e desolazione. Nel frattempo era rimasta solo col figlio Mur, che soffriva pesantemente la povertà e le rinfacciava la vergogna e l’umiliazione che provava. Alla fine, il 31 agosto del 1941, rimasta da sola a casa, la Cvetaeva si impiccò. Eppure, Marina Cvetaeva era una donna che amava immensamente la vita. “Vivere è splendido. Ma noi viviamo male” scrisse. Una donna forte, una donna ostinata, caparbia, per la quale il dolore era una fonte di vita, anticonformista, sempre contro, fino alla fine.
Credo fosse necessario introdurre, seppur sommariamente, il personaggio di Marina Cvetaeva per capire meglio cosa siano riusciti a realizzare Ricci/Forte con questo materiale umano.
Hanno preso e condensato, si sono impossessati del senso stesso della vita e delle opere della Cvetaeva per rielaborarle, frammentarle e riunirle in percorsi onirici in cui si spalancano porte irreali che però irrompono nella realtà sconvolgendola con un percorso emotivo dalla potenza deflagrante.
Easy To Remember è uno spettacolo che violenta la realtà mettendola a confronto con la follia, in senso stretto e in senso lato. Follia come uscir di senno, ma anche come uscire da se stessi, vedersi oltre alla mera sostanza e percepire se stessi e gli altri nell’essenza. Follia come forza creatrice e spazio in cui può muoversi la libertà.
La scena è una stanza completamente bianca, di un bianco accecante. Un luogo non luogo in cui si staglia una figura femminile su una sedia a rotelle. E’ Marina (Anna Gualdo). Le sue ginocchia sono immobili, malate; le braccia poggiate sui braccioli e le mani tremano. Indossa un camice da ospedale.
Accanto a lei un’altra donna (Liliana Laera): indossa anche lei un camice, ma da infermiera. Traffica con una cassapanca che altro non è che una bara in legno molto semplice. La svuota di crisantemi (è la vigilia della festa dei morti) che sparge con gesti molto lenti sul pavimento.
Entrambe sono truccate in viso: sembra indossino la maschera di un teschio. In testa, tra i capelli, portano crisantemi arancioni e gialli.
Marina comincia un lungo monologo, a cui seguirà quello dell’altra donna, Ariadna/Alja, la figlia/infermiera. Così, da sole, insieme, l’una contro l’altra e l’una con l’altra, proseguiranno a parlare e a interagire come personaggi di un sogno, di una fantasia, di una mente, forse malata, forse in cerca di un rifugio, di riposo. Certo non di una soluzione perché “non c’è altro, nessuna soluzione”.
Le parole solo restano a rincorrere ogni volta i pensieri, a rincorrersi tra loro, a cercare di ricordare.
In quella stanza, in quel posto che c’è, ma non esiste e che se esiste non sai dove sia, in quella cella bianca in cui la luce si riflette accecante, in quella tomba, Marina si afferra alla memoria, abbraccia i ricordi, ricordi ormai rapinati, cercando di rimettere insieme pezzi di vite disordinate e stracciate. Immagini, racconti sussurrati, ricordi affastellati, creano un’anatomia scomposta come lastre che ti guardano dentro, ma non vedono chi sei e riescono solo a scoprire quello che non va, ma non forniscono risposte o soluzioni.
Presenze si agitano, suoni stridono, musiche scuotono, feticci ammoniscono. Voci femminili si sovrappongono: sono madre e figlia; potenza generatrice e creatura che potrebbe a sua volta ridare vita alla madre; sono matrigna e rifiuto, diniego e privazione di nuovo sangue; sono incontro e contatto in un’altra sfera, un’altra dimensione.
E’ il tentativo di riconciliazione alla vigilia della notte di novembre in cui avviene l’armistizio coi morti. E’ attesa. Attesa del ritorno, attesa infinita, forse delusa, ma non vana. Sono pezzi che mancano, emozioni che mancano, persone che mancano. Si manca anche a se stessi. Solo le parole restano, solo quelle sembrano essere vere e vive.
Eppure c’è forza, carattere, caparbietà: l’unica via è resistere: resistenza e rivoluzione sono le uniche alternative.
Siamo fuori, viviamo fuori di noi; è possibile solo incontrarsi, ma non fondersi; le distanze non si possono accorciare e le solitudini non si possono riempire, però ci si può incontrare, come personaggi di una giostra o di un carillon che insieme girano mossi da un movimento superiore al quale possono solo lasciarsi andare.
La coppia Ricci/Forte porta a teatro qualcosa di completamente nuovo rispetto ai lavori precedenti: la fisicità prepotente e dirompente alla quale ci hanno abituato lascia il passo alla quasi immobilità, al gesto trattenuto, accennato.
Tutto appare sempre sospeso: si è portati in una dimensione astratta, senza tempo né spazio, in un vuoto riempito solo dalle parole (dette, sussurrate, sibilate, proiettate) e da immagini e simboli. Ogni cosa è simbolo, ogni cosa è rappresentazione.
Anna Gualdo e Liliana Laera rappresentano con estrema tenacia due mondi diversi, distanze che sembra non possano mai avvicinarsi, due vuoti che appaiono incolmabili, due abbracci interrotti che non riescono mai a congiungersi.
Eppure, poi, cadono l’una dentro l’altra, crollano i muri, i ricordi vengono riposti nella bara insieme a tutto il resto, sepolti forse, e arriva il momento di decidere se tutto sia finito o se sia solo un nuovo inizio.
Un testo difficile, denso, in cui le parole vengono scagliate o lasciate appese e, frammentate come pezzi di un puzzle, si ricompongono ogni volta in modi e forme diverse.
Sicuramente un testo non Easy To Remember per le due bravissime attrici, ma che allo stesso tempo resterà loro nella memoria.
Easy To Remember
drammaturgia Ricci/Forte
con Anna Gualdo e Liliana Laera
regia Stefano Ricci
assistente regia Ramona Genna
Suono Andrea Cera
Voce Anna Terio
Leave a Comment