L’attività del critico teatrale parte dall’osservazione e si sviluppa in un dialogo: il critico deve stimolare la riflessione, creare il dubbio.
Egli deve saper separare, scegliere e giudicare contestualizzando lo spettacolo e il percorso creativo, considerando anche quale effetto il lavoro abbia sul pubblico.
Deve operare la ricostruzione di un percorso alla ricerca delle specificità e delle motivazioni degli artisti.
Il critico teatrale è chiamato a presentare nuove istanze, a dare voce al nuovo, se di valore; allo stesso tempo deve denunciare chi si prende gioco del teatro e degli spettatori.
Dopo l’osservazione e l’analisi, il critico deve essere in grado, con la parola, di riportare immagini al lettore e allo spettatore, che dovranno essere in grado di visualizzare quanto egli descrive.
Amo tutta l’opera di Pinter, ma questo atto unico, nella sua scarna teatralizzazione materiale, con la sua profondissima penetrazione nell’animo e nel disagio umano,
mi ha colpito come una frecciata dalla prima volta che l’ho letto.
Cit. Gabriela Corini
CENERI ALLE CENERI- Atto Unico di Harold Pinter, con Gabriela Corini e Roberto Zorzut, regia di Gabriela Corini – Teatro Trastevere, dall’1 al 5 febbraio 2023
L’atto unico Ceneri alle Ceneri è il capolavoro del premio Nobel Harold Pinter, scritto nel 1996 e penultima opera dell’autore. Per la regia di Gabriela Corini, che ne è anche interprete assieme a Roberto Zorzut, verrà replicato al Teatro Trastevere di Roma nell’area temporale del Giorno della Memoria il 1-2-3-4-5 Febbraio 2023.
Una coppia di mezza età nell’intimità della propria casa improvvisamente discute di un
passato misterioso e torbido della donna, cosa che rompe un equilibrio apparentemente
sereno e rivela un terribile passato di orrori e dubbi sulle loro identità. Le azioni descritte,
legate alla figura di un amante prevaricatore e violento, ci fanno conoscere l’eterna
condizione di oppresso e oppressore, di vittima e carnefice.
Orrori e violenze rivelate in stralci, ricordi vaghi e fumosi della donna, a mano a mano prendono corpo negli orrori e nelle terribili violenze della persecuzione ebraica durante la seconda guerra mondiale. Per la prima ed unica volta nella sua intensa carriera di drammaturgo, Harold Pinter, inglese di origine ebraica, fa chiaro riferimento all’Olocausto, che ha segnato indissolubilmente la sua vita emotiva, generando il suo stile definito teatro del disagio. In un crescendo di Pathos, la pièce si evolve, tutta di un fiato, suggerendo probabili scenari e probabili identità. Chi era l’uomo di cui la donna parla, a volte come un amante, a volte come l’aguzzino? Che fine ha fatto la sua bambina? Ed il presunto marito, ha avuto un ruolo in questa storia? Lo spettatore non avrà fino alla fine nessuna certezza, nessuna chiara risposta, fino alla chiusura del sipario, disturbatamente incantato.
Gabriela Corini affronta una messa in scena, scarna ed essenziale, come suggeriscono le note di regia dell’autore, accentrando l’attenzione del pubblico sul travagliato rapporto dei protagonisti e sulla loro essenza umana. Una storia senza tempo, tra parole ridotte allo stretto e senza soluzioni, che lascia interrogativi aperti ed ipotesi da sviluppare.
NOTE SU HAROLD PINTER
Harold Pinter (Londra 1930/ Londra 2008), è stato un grande drammaturgo,
scrittore, sceneggiatore, poeta, attore e regista teatrale britannico. Ebreo di nascita, Pinter non
ha mai creato opere che facessero riferimento al dramma dell’Olocausto, fino a che, nel 1996,
con CENERI ALLE CENERI, mette a nudo gli orrori della Shoa, attraverso un dialogo tipico del
suo stile inconfondibile. Un uomo e una donna soli in una stanza, si rivelano in un gioco di
faticosi ricordi, finora rimossi, come protagonisti di un terribile accadimento, trovandosi
faccia a faccia e senza ormai più possibilità di scampo dalla realtà.
Oblivion Rhapsody arriva dirompente al Teatro Sala Umberto di Roma per festeggiare i primi dieci anni di tournée del gruppo musical-recitativo più dissacrante, con una summa di tutte le sue creazioni e interpretazioni in una versione inedita.
Uno spettacolo-concerto entusiasmante, esilarante e sorprendente creato con una chirurgica precisione nonostante, all’apparenza, possa sembrare un delirio musicale.
Delirio lo è, in effetti, ma di quelli buoni, di quelli “che ti prendono bene”e che rivivresti mille volte perché non hanno controindicazioni.
In Oblivion Rhapsody “i cinque miracolati dalla banda larga, i cinque punti del governo del cantare, i cinque anelli delle obliviadi, i cinque gradi di separazione fra Tito Schipa e Fabri Fibra, i cinque madrigalisti post-moderni” (così si definiscono nella bio sul loro sito), portano una rassegna folgorante della loro intera produzione in una versione acustica sorprendente e inedita.
Mettendo su un’orchestra a basso costo (low cost la definisce Lorenzo Scuda), si presentano sul palco del Sala Umberto con chitarra, cembalo, cajon, shaker, flauto traverso, sassofono, campanaccio e un’altro strumento forse creato da loro (una tavola di legno con tasti e piccoli piatti musicali da dita), dando vita a uno spettacolo-concerto in cui giocano con la musica, il teatro e la letteratura.
Con una maestria unica e senza precedenti, gli Oblivion scompongono e reinventano i loro successi e si dedicano con passione, gioia e divertimento a dissacrare quelli degli altri.
Tra parodie dei classici della letteratura, intrusioni nei brani celebri della musica italiana e straniera, rimaneggiati e riarrangiati ad arte, mescolando musica e parole in nuove creazioni geniali ed estrose, gli Oblivion giocano con il teatro e la musica inventando e reinventando, manipolando, accostando generi musicali a testi inediti, oppure utilizzando testi di altri su musiche di altri brani, fino ad arrivare (sarebbe più corretto dire cominciando da) al primo testo in volgare tra la gente italica.
Oblivion Rhapsody è uno show musicale e teatrale che naviga tra passato e presente, tra il serio e il faceto, tra sollazzo e satira di costume.
In un ritmo incalzante passano dal cantare i Promessi Sposi di Manzoni, ai titoli del telegiornale; da Giacomo Leopardi ai nostri cantanti del momento (tantissimi: Tiziano Ferro, Baglioni, Giusy Ferreri, Jovanotti, Noemi, Fiorella Mannoia, Ligabue, Emma Marrone, Giuliano Sangiorgi…); dalla rivista al Quartetto Cetra; da Shakespeare alla cronaca nera (sempre utilizzando testi di canzoni); dalle varie versioni più celebri dell’Ave Maria alla satira politica; dalla storia di Gesù (Dal Vangelo secondo JC – tra l’altro uno dei pezzi personalmente più entusiasmanti) alla storia del rock in cinque minuti.
Una vera e propria rapsodia!
Tutto questo lo fanno e lo possono fare solo in virtù di una preparazione non solo musicale, ma artistica e culturale di altissimo livello.
Dietro all’aspetto apparentemente solo ludico si riscontrano, infatti, una conoscenza approfondita e (forse) universale della musica e capacità creative fuori dal comune, dove testi, musica e interpretazioni sono creati, smontati e miscelati con un’intelligenza fina e una eccezionale capacità di gestire i riferimenti musicali, testuali e storici insieme agli strumenti non solo musicali.
Gli Oblivion sono un’encilcopedia vivente della musica (“Alexa scansate!” – si direbbe a Roma) che sanno prendere, interpretare, manipolare e plasmare con straordinaria abilità.
Posseggono un’inventiva delirante; ispirazioni folgoranti che riescono trasformare in fantastici successi grazie a capacità compositive e creative straordinarie.
Alla fine tutto questo percorso si realizza e prende vita sul palco attraverso le loro esuberanti e impeccabili interpretazioni.
Cinque voci bellissime quelle di Graziana Borciani, Davide Calabrese, Francesca Folloni, Lorenzo Scuda e Fabio Vagnarelli, che compongono incredibili armonie sinfoniche e giochi musicali difficilissimi, resi con leggerezza, rapidità ed esattezza, in una sincronia di movimenti e voci precisa al millimetro.
Gioco, ironia, divertimento e satira: dietro allo spettacolo di intrattenimento degli Oblivion c’è un talento eccezionale e una professionalità di grandissimo livello, che il pubblico ha saputo riconoscere a a cui ha tributato lunghissimi ed entusiasti applausi.
Non osiamo immaginare lo sforzo registico che deve aver impegnato Giorgio Gallione nel riuscire a coordinare e assemblare insieme i pezzi e le interpretazioni di questi cinque folli e talentuosi artisti che danno l’idea di essere piuttosto irrequieti e difficilmente domabili.
Da segnalare a fine spettacolo, a sipario chiuso e mentre il pubblico lentamente lasciava la sala, che in sottofondo veniva fatto ascoltare il brano cantato da Raffaella Carrà, “Ma che musica maestro”.
Un omaggio, forse, ma il cui testo potrebbe anche essere considerato un manifesto ideologico per questo straordinario gruppo di artisti.
HYBRIS di RezzaMastrella: alla fine muoiono tutti, fucilati da una porta; tranne uno, altrimenti chi sarebbe a sparare?
La HYBRIS di RezzaMastrella è la tracotanza dell’uomo sull’uomo che porta all’annientamento dell’uomo da parte di un altro uomo in nome di una presunta superiorità.
Indeciso da dove cominciare per raccontare lo spettacolo lucidamente folle o follemente lucido, disarmante, destabilizzante, esilarante, spiazzante, entusiasmante, accattivante, parossistico di Flavia Mastrella e Antonio Rezza siamo partiti dalla fine, cercando come loro, ma senza il loro successo, di stravolgere le regole dettate dalle convenzioni.
HYBRIS è uno straordinario spettacolo di RezzaMastrella che destruttura le regole della logica e del discorso, la struttura consequenziale del dialogare tradizionale, universalmente riconosciuto e condiviso.
Rappresenta l’ideazione di un linguaggio che sovverte le consuetudini linguistiche per generare ogni volta un significato nuovo dirompente e fuori dagli schemi linguistici convenzionali.
Un non-testo e uno spettacolo che travolge i canoni logici tradizionali attraverso l’inversione di essi, creando un nuovo linguaggio e una nuova logica.
Il fatto che comunemente noi seguiamo un metodo speculativo che riteniamo logico e razionale, dettato dalle regole di convivenza e dalla necessità di una comprensione universale, non significa che altre logiche non possano essere scovate o inventate, o che non si possa costituire nuovi linguaggi, apparentemente illogici, ma in realtà semplicemente diversi, “altri”appunto, che procedono più per simboli, metafore, assonanze, distorsioni e giochi linguistici; nuovi modi di dire feroci e cinici, ma efficaci, concreti e pungenti che sovvertono le regole del comune e convenzionale ragionare.
Anzi, ascoltando Rezza e guardandolo, perché insieme a Mastrella non solo crea un linguaggio verbale e logico altro, ma lo completa anche con le possibilità infinite espressive del corpo e del viso, possiamo comprendere che le convenzioni a cui siamo arrivati e che sono state stabilite per una comprensione universale, costituiscono solo specifici punti di vista da cui si guarda, si considera, si vive e si agisce il mondo, ma anche limiti a diverse, più forti e rappresentative forme di pensiero, ragionamento, comunicazione e, quindi, linguaggio, dove per linguaggio si intende la vasta gamma delle potenzialità espressive umane che comprendono non solo le regole logiche e grammaticali, ma anche le possibilità altre e infinite di movimento nello spazio, di utilizzo degli oggetti quotidiani, di espressività fisica e mimica facciale e tutto ciò che possa venirci in mente.
Come viene portato in scena tutto questo? In uno spazio pressoché vuoto, delimitato a terra da strisce che costituiscono un confine tra un dentro e un fuori, ma un confine facilmente valicabile (è sufficiente scavalcarlo).
ph. Annalisa Gonnella
Sulla scena solo una sedia da ufficio, un attrezzo ginnico, due parallelepipedi che sembrano due frigoriferi, un paio di oggetti appesi, non identificabili e mai utilizzati. Il tutto giocato sulle luci e i colori del rosso e del nero.
Al centro di tutto, una porta col suo telaio, posta a terra orizzontale quasi fosse una bara.
Questa porta è il feticcio di Antonio Rezza in HYBRIS: la muove, la sposta, la apre e la chiude (da dentro e da fuori) in continuazione, senza sosta.
La porta come simbolo di apertura e chiusura, di passaggio e confine, di entrata e di uscita.
Divide chi è dentro da chi resta fuori e fa scaturire mille elucubrazioni sull’essere e sull’esserci (quindi ontologiche).
Fuori di essa c’è un mondo: la porta apre alla possibilità, a infinite possibilità nel tempo e nello spazio.
La porta “apre sul nulla e chiude sul nulla”: confine e limite tra il dentro e il fuori, ma anche apertura verso le infinite possibilità di essere e di esserci.
Però, ogni volta che noi ci consideriamo dentro qualcosa, una casa o un qualsiasi luogo, ma anche dentro un’attività manuale o speculativa, avvertiamo chi sta dall’altra parte rispetto a noi come qualcuno che sta fuori.
Eppure, la stessa sensazione e certezza avrà nei nostri confronti colui che, pur essendo fuori, prendendo come punto di riferimento il suo essere dentro ad un’altra casa o altro luogo o altra attività, avvertirà noi stessi come fuori.
Fuori dalla porta ci sono gli altri, ma per quelli che stanno fuori dalla porta, siamo noi gli altri.
RezzaMastrella ragionano (sembra strano affermarlo guardando lo spettacolo, ma è così) sulle implicazioni di questo concetto, affrontando e analizzando l’alterità nelle relazioni, che siano esse amicali o parentali: quando si nomina o si sente qualcuno come “altro”, ci si pone sempre nei confronti di esso come se fosse fuori di noi, senza considerare che, allo stesso tempo, anche noi per l’altro siamo fuori di lui.
Chi bussa a una porta di solito sta fuori. Si bussa per entrare: ma non sarebbe forse più giusto bussare per uscire?
Il “dentro” è un rifugio; stare dentro dà protezione. E’ stare fuori che fa paura; è fuori che domina l’incertezza dell’essere. Allora dovremmo bussare per uscire, perché è fuori che sta il mondo, che stanno tutti: è lì che si deve chiedere il permesso di entrare, di “entrare fuori”.
Ma allora: dove è la HYBRIS del titolo? Il termine deriva dal greco antico e come tutti i termini greci classici, rappresenta un mondo.
Hybris indica la tracotanza, l’andare oltre la propria natura finita e imperfetta di uomo per raggiungere gli dei e ad essi sostituirsi.
Qui dio non c’è e se c’è viene rinnegato e la Hybris è quella dell’uomo nei confronti degli altri uomini; è quel senso di orgoglio che fa sentire superiori agli altri che fa compiere azioni atroci.
Antonio Rezza fa vibrare la scena concepita da Flavia Mastrella: funambolo della parola, cinico, irriverente, impertinente, scomodo, scorretto, incessante, inarrestabile, irrefrenabile fino quasi allo sfinimento (non solo il suo), tanto da far quasi perdere l’orientamento al pensiero e nello spazio, grazie all’energia fisica apparentemente inesauribile, al suo continuo muoversi e agitarsi sulla scena e al di fuori di essa.
Rezza è tutto voce, corpo, fiato e suono (emblematico il fischietto che cela – o svela?- una reiterata bestemmia – intellegibile secondo Rezza).
Intorno a lui otto personaggi muti e attoniti; o forse è lui a stare intorno e in mezzo a loro: otto bambolotti mossi dal cinico burattinaio Rezza.
Rezza muove gli altri con le azioni e con le parole, investendoli fisicamente e verbalmente a cascata, mettendoli a disagio, affermandone e allo stesso tempo negandone lo stato ontologico.
Gli altri sono burattini mossi da lui e soggetti alla sua tempesta verbale e fisica; essi stessi habitat da lui abitato; li scuote, li sconvolge, li anima.
E, così come li anima, allo stesso modo li annienta, fucilandoli uno alla volta…con una porta!
Perché definire folle il lavoro di RezzaMastrella?
Solo perché il loro linguaggio, che crea costantemente immagini che si negano a se stesse, è contrario o diverso da come comunemente parliamo e ci esprimiamo?
Eppure, non è così diverso dal pensiero: sì, perché il loro cinismo, poi, non è altro che rappresentazione della realtà, delle nostre idee, di quelle parole che restano mute in gola perché non è buona norma esplicitarle, perché “non sta bene”.
HYBRIS di Flavia Mastrella Antonio Rezza
Foto di Annalisa Gonnella con Antonio Rezza e con Ivan Bellavista, Manolo Muoio, Chiara Perrini, Enzo Di Norscia, Antonella Rizzo, Daniele Cavaioli, Miriam Fricano e con la partecipazione straordinaria di Maria Grazia Sughi (mai) scritto da Antonio Rezza habitat Flavia Mastrella assistente alla creazione Massimo Camilli luci e tecnica Daria Grispino organizzazione generale Marta Gagliardi Stefania Saltarelli macchinista Andrea Zanarini produzione RezzaMastrella, La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello, Teatro di Sardegna coproduzione Spoleto, Festival dei Due Mondi ufficio stampa Chiara Crupi – Artinconnessione Debutto: 7 luglio 2022 – Spoleto Festival dei Due Mondi
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