lear

 

Silvano Toti Globe Theater

23 giugno 2016. Prima

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Lear il Re tracotante e superbo che domina gli uomini e sfida gli dèi. Lear; il Re che divide il proprio Regno tra le due figlie che lo adulano falsamente escludendo dal patrimonio quella che lo ama il giusto, con rispetto e devozione.

Lear, il Re che diventa folle per il dolore straziante nel prendere consapevolezza della propria umanità e quindi finitezza e suscettibilità all’errore; il Re che impazzisce nel rendersi conto che tutto quello che aveva costruito e creato era frutto di un’inesauribile desiderio di accumulare e di potere e che si sforza di mantenere tale potere e la deferenza che ne dovrebbe derivare anche nei momenti più cupi. Lear, il Re visionario che si affida ad un inconscio matto, a un nobile servitore camuffato e a un finto mendicante fintamente folle.

Vera follia che annienta, finta pazzia che aiuta.

Lear. La Storia è una tragedia, per la struttura narrativa e compositiva e per la vicenda stessa che racconta; forse la tragedia più drammatica di Shakespeare e che più rispetta la matrice di quella greca in cui destino, fato fortuna, come li si voglia chiamare, intervento degli dèi, quindi una volontà fuori dell’uomo e di lui più forte, inganno, complotto, follia, malattia, disobbedienza e ingratitudine trovano la loro più completa espressione, in cui la catarsi si compie senza distinzione tra bene e male, facendo vittime da ambe le parti. Il bene non vince sul male, ma solo alla fine lo sostituisce: affinché l’ordine naturale e supremo venga ripristinato, sono necessarie delle vittime, si richiedono sacrifici enormi e mortali.

La tragedia presentata ieri al Silvano Toti Globe Theatre di Roma e in scena fino al 3 luglio, vede uno splendido Mariano Rigillo nei panni di Re Lear.

L’adattamento (con la traduzione di Masolino d’Amico) e la regia di Giuseppe Dipasquale sono complessi e articolati, faticosi in alcuni punti del primo atto, ma, allo stesso tempo, hanno il grandissimo pregio di rispettare e mettere in evidenza il valore altamente simbolico e allegorico dell’opera del Bardo.

Lo si vede da subito: la scena iniziale è meravigliosamente suggestiva. Lear stanco e vecchio, sdraiato in un letto, viene accolto dalle figlie che lo vestono degli abiti gloriosi del suo potere mentre in sottofondo un lento stillicidio crea una melodia suadente. La divisione del regno tra le due figlie è materialmente rappresentata dalla veste e dalla corona che si frammentano in due parti uguali.

Il simbolismo si muove oltre, portando in scena le due figlie crudeli, ingrate e ingannatrici, interpretate da due uomini a rappresentare la concezione maschilista del potere e a porre  maggiore distanza tra loro e Crudelia, figlia devota e rispettosa, che ama nella giusta misura.

Il primo atto, però, è faticoso; dopo un inizio suggestivo si avvertono delle difficoltà drammaturgiche e mancanza di ritmo. Nel secondo atto c’è una stupefacente ripresa: la narrazione stessa e i dialoghi si fanno più serrati e la drammaticità, prima veicolata attraverso dialoghi asciutti, esplode ora nei sentimenti e, soprattutto, nella follia di Lear.

Rigillo interpreta una follia realistica, tirandone fuori una tenerezza e arrendevolezza incredibili. Lear diventa un vecchio bambino, come un uomo qualunque, un uomo semplice in bilico tra lucidità e pazzia. Egli sveste Lear della sua prepotenza e protervia per ricoprirlo di umanità, dolore, disperazione e consapevolezza.

Un altro padre, ingannato e disperato, è Gloucester, interpretato con padronanza e sensibilità da un grande Sebastiano Tringali.

Meravigliosa l’interpretazione di Luigi Tabita nei panni di Regana, una delle figlie di Lear: ha dato un piglio forte e crudele, mettendone in mostra astuzia e una vena di sadismo. Postura e sguardo erano strettamente connessi all’interpretazione, ma, soprattutto all’intenzione.

Brava Silvia Siravo nei panni di Crudelia: nonostante stia poco in scena, riesce a far avvertire la presenza e l’importanza del proprio personaggio.

Buona prova anche per David Coco, Edmund, il figlio infedele di Gloucester, che trama contro tutti per raggiungere il potere. Grande presenza e carattere forte, anche se a volte, troppo caricato.

Bene Giorgio Musumeci nei panni di Edgar, il figlio ingiustamente esiliato, il finto matto, che resta fedele al padre sempre senza mai offenderne il nome. Una prova interessante, anche fisica, in un’interpretazione che richiede la capacità di mantenere i cambi di registro.

Bene, a seguire, Filippo Brazzaventre (Kent), Enzo Gambino (Duca di Borgogna), Roberto Pappalardo (Goneril).

Meno calzante e coinvolgente Anna Teresa Rossini nei panni del Matto, inconscio e alter ego di Lear. Direi un personaggio al quale non viene dato tutto il respiro che potrebbe avere privandolo di colore.

Ho trovato scarso l’uso della partitura musicale: efficace laddove presente, se ne sente la mancanza come un vuoto.

Se, come riportato nelle note di regia, “il momento alchemico è dato dalla tempesta, nella quale il disordine degli elementi prova a trovare la sua ricomposizione”, dov’era questa tempesta? Non c’era suono che ricordasse pioggia, tuono e vento. Forse l’intenzione era quella di lasciare l’opera ad un livello più intimistico e personale, rappresentando più la tempesta che si scatena dentro l’uomo che quella degli elementi naturali, ma un collegamento, un richiamo tra l’uno e l’altro mondo avrebbe reso un maggior impatto emotivo.

Infine, bellissimi i costumi di Angela Gallaro e il trucco, in particolare per Tabita/Regana.

 

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