La Voce Umana è un testo difficile, drammatico e asciutto di Jean Cocteau: in scena solo una donna e un telefono.La donna viene lasciata arbitrariamente dall’uomo, ma tra i due resta un contatto telefonico, l’unico tipo di contatto che può rimanere, l’unico legame che, però, non li unisce.La voce dell’uomo non si sente mai all’altro capo del telefono: riusciamo a intuire le sue parole dalle risposte e dai silenzi della donna.La comunicazione, tra l’altro, è spesso interrotta o disturbata, causa il malfunzionamento delle linee telefonica dell’epoca a Parigi (siamo negli anni ’30) come interrotta è la relazione tra due, disturbata dal non amore e dalle bugie.

Tra le grandi interpreti italiane di questo anomalo monologo troviamo la grandissima Anna Magnani e Anna Proclemer.

Al Teatro SalaUno, La Voce Umana viene interpretata da Gloria Annovazzi con evidente impegno e trasporto, con un’energia che viene concentrata nella lenta gestualità e nello sguardo perso e disperato, come disperata è la voce della protagonista.

Non abbastanza disperata, però, né abbastanza folle d’amore: questa donna che tenta di trattenere il suo uomo al telefono come se lo stesse trattenendo per un braccio, che lo cerca, lo chiama angosciata quando la linea cade o è disturbata, questa donna che sa che lui le sta mentendo eppure continua a volerlo tenere legato a sé, questa donna che ha anche già tentato il suicidio per causa sua, non arriva a scuotere la coscienza dello spettatore.

La scelta di interpretare il testo con lentezza e concentrazione non trasmette l’angoscia che lei prova, nella voce non c’è abbastanza urgenza d’amore.

Dopo quindici minuti di soliloquio ci si aspetta che accada qualcosa, ma dopo un’ora e un quarto non è accaduto ancora nulla.

La voce resta la stessa per tutto il tempo, salve qualche raro momento in cui il tono viene alzato; la donna si trascina per la casa come trascina la propria storia d’amore finita, come trascina la propria vita, ma ti lascia indietro, non ti trascina via con sé.

Va sicuramente elogiata la bravura della protagonista nel sostenere per un’ora e un quarto un monologo così difficile in cui si devono far intuire a chi vede e ascolta le parole che vengono dette dall’altra parte della cornetta. Però, non basta. Manca qualcosa, manca nella voce la giusta disperazione e la giusta dose di illusione e follia.

Peccato perché l’intenzione di riflettere sulla mancanza di comunicazione o la difficoltà di contatto dei nostri giorni è buona; i riferimenti anche sono interessanti come il groviglio di cavi telefonici che pende dal centro del soffitto a rappresentare, forse, le milioni di storie e di comunicazioni interrotte o disturbate.

Però, non basta.

La sagoma disegnata in bianco su sfondo nero come le scene del crimine fa presagire qualcosa che non accade, ma che è già accaduto, come i bicchieri e le pillole sparsi sul pavimento non hanno alcuna funzionalità né assumono significato nel proseguire della storia, ma rimandano a qualcosa di già accaduto e non visto.

La relazione uomo donna è cambiata nel tempo e anche la comunicazione tra i sessi. Per portare in scena oggi un testo del genere si sarebbe dovuto trovare un modo nuovo, diverso, più pungente, forse.

 

 

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