Recensione di Carlo Tomeo

foto carlo

Pensare a “La guerra dei Roses” come a una messa in scena teatrale tratta da un fortunato film è sbagliato, in quanto essa è nata prima di tutto come romanzo dalla penna di Warren Adler, che poi ne scrisse anche la sceneggiatura quando gli chiesero i diritti per farne un film. Successivamente l’autore decise di adattarne la vicenda anche per il teatro e ne scrisse un terzo testo, mantenendo naturalmente trama e personaggi del romanzo inalterati e creando, quasi senza volerlo, un’opera forse più adatta a una stesura teatrale che non a un film, dove dramma e comicità si compenetrano in ogni momento più di quanto possa avvenire in un pur pregevole film.

La trama che la commedia racconta è riconoscibilissima anche da parte di chi non ha letto il romanzo o non ha visto il film: si parla della storia di un rapporto d’amore tra due persone che sfocia, dopo diciotto anni di matrimonio, nell’odio più profondo: Barbara e Jonathan Roses (interpretati da Ambra Angiolini e Matteo Cremon). Non ci sono due personaggi che possono essere considerati come un colpevole e un innocente, interpretando alternativamente sia l’uno che l’altro i due ruoli ed è ben difficile “parteggiare” per uno dei due. Come dice il titolo i due partecipano a una guerra a due, senza esimersi dall’avere, sia l’uno che l’altra, un proprio complice e consigliere che sono poi i due avvocati nella causa di divorzio che i protagonisti vogliono portare avanti. L’incaglio a una civile separazione è il possesso della casa cui nessuno dei due vuole rinunciare.

Per diciotto anni lui ha sostenuto il ruolo del capofamiglia tradizionale, lavorando come avvocato che acquista sempre più successo e mantenendo la famiglia, composta, oltre da che da lui e da sua moglie, da due figli adolescenti. con un’ottima posizione sociale ed economica. Lei ha sostenuto il ruolo della moglie “perfettina”, come la buona società si aspetta e che, rispetto al marito, sarà complice e “ruffiana”, come si autodefinirà lei stessa più avanti nel momento in cui avvertirà il primo malessere esistenziale e inizierà finalmente “a mettere giù le carte”. Finora è vissuta all’ombra del marito, ora reclama la sua identità e autonomia e non vuole più essere “la fiamma del focolare domestico”. Siamo di fronte a una storia come tante che nasce da un amore non completamente esaminato a fondo fin dall’inizio perché travolto dalla passione, dove due esseri umani sembrano fatti l’uno per l’altro e non vedono da subito che la loro diversità caratteriale potrebbe a un certo punto mettere in crisi il rapporto tanto che, se qualcosa di sgradevole traspare, viene immediatamente “nascosto sotto il tappeto”. Due persone innamorate dove uno dei due, in questo caso, come spesso purtroppo avviene è lei, deve sottomettersi bonariamente a qualche capriccio del coniuge e credendo di vivere una vita felice e fortunata. Fino a quando, come suole dirsi, “prende coscienza” e scopre che raggiungere la propria autoaffermazione diventa il vero scopo della sua vita. Decide, grazie alla sua abile arte culinaria, di diventare una grande chef, cercando di allontanare da quella casa, di cui rivendica l’eleganza creata da lei stessa, sia pure a spese del marito. Ma costui non vuole perdere quello che invece ha pagato di tasca propria, anche se lei gli rinfaccia i sacrifici che lei ha fatto da giovane per fargli ultimare gli studi e iniziare una buona carriera.

Costretti a convivere sotto lo stesso tetto, perché nessuno dei due vuole intende cedere, cominciano con il farsi i primi dispetti, che poi diventano sempre più cattivi fino a raggiungere la crudeltà più abietta e entrambi riusciranno a tirar fuori il peggio di loro stessi, fomentati dai due avvocati-complici dell’uno e dell’altra, che rappresentano quasi degli alter ego: un altro esempio di odio reciproco fra i due sessi. Perché qui si sposta l’asse che diventa il vero motivo del contendere: l’asservimento della donna all’uomo che vuole mantenere il predominio anche dopo che ha scoperto che la donna non è quell’essere umano inferiore che lui ha sempre creduto di poter dominare.

Manca nella commedia una frase illuminante che è presente nel film (non so se c’è anche nel romanzo, non avendolo letto): quella che è pronunciata da Danny De Vito quando vuole mettere in guardia il suo cliente e il cui senso è pressappoco di questo tenore: “ Non sottovalutare mai le forze di una donna, e quindi non pensare che, se il tuo nemico appartenga al sesso femminile, possa essere vinto più facilmente “

La rappresentazione della commedia servita dall’ottima, direi magica, regia di Filippo Dini, è veramente eccellente e tutta la storia non perde mai, come suole dirsi, un colpo, mantenendo lo spettatore un attento osservatore di quello che accade sul palcoscenico senza farlo distrarre un attimo. Molto in carattere la splendida scenografia di Laura Benzi, dove sia il pavimento, che l’entrata principale e la gradinata che porta al primo piano sono volutamente distorte, cosa che costringe gli attori a muoversi con enorme attenzione, anche se questo non traspare: è il simbolo degli alti e bassi che costellano la vita umana e il grande lampadario, oggetto importante di tutta la vicenda, campeggia ricco e lucente a dimostrare una vita che è tale solo in apparenza, ma che riesce anche a procurare la morte.

Ambra Angiolini è un’attrice che non avrebbe potuto recitare meglio: è questa la terza volta che l’ammiro a teatro e in parti sempre più impegnative (lo scorso anno, per esempio, la vidi in “Tradimenti” di Pinter che non è un autore facile da rendere) e questa volta l’ho vista crescere professionalmente ancora di più: il suo personaggio sa essere dolce e cattivo, struggente e crudele, ma sempre credibile in ogni momento della commedia.

Ugualmente si può dire di Matteo Cremon, che riesce a recitare la parte del simpaticone mentre invece lo spettatore non sa ancora del suo malfatto e che appare persino ingenuo, tanto da essere guidato dal proprio avvocato Goldstein, interpretato da un ottimo Massimo Cagnina, il quale recita anche in una piccola irresistibile scena in abiti femminili.

Altrettanto da lodare è Emanuela Guaiana che nella commedia sostiene il ruolo dell’avvocatessa di Barbara, l’odiata Thurmont, vista dal collega Goldstein come perfida e arrivista rappresentante della categoria forense.

Moltissimi gli applausi anche a scena aperta, con numerose chiamate alla fine, da un pubblico entusiasta in un teatro esaurito in ogni ordine di posti.

La Guerra dei Roses

Di Warren Adler

traduzione di Antonia Brancati Enrico Luttmann

con Ambra Angiolini e Matteo Cremon

e con Massimo Cagnina e Emanuela Guaiana

regia Filippo Dini

scenografie Laura Benzi

costumi Alessandro Lai

luci Pasquale Mari

musiche Arturo Annecchino

prodotto da Valerio Santoro per La Pirandelliana

in coproduzione con Goldenart Production e Artisti Riuniti

Si ringrazia la Sig.ra Manola Sansalone dell’ufficio stampa

In scena al Teatro Manzoni di Milano fino al 26 novembre.

FacebookTwitterPinterestGoogle +Stumbleupon