spoglia toy

Il nuovo conturbante spettacolo di Luciano Melchionna

Piccolo Eliseo

16 maggio 2019

Prima

Spoglia-toy Luciano Melchionna foto di Tommaso Le Pera

Finalmente a Roma, al Piccolo Eliseo, il nuovo conturbante (“che suscita interiore turbamento, risvegliando inquietudini e stati d’animo fortemente emozionali” – dizionario Treccani) spettacolo di Luciano Melchionna, Spoglia-toy.

Il gioco linguistico è immediato e rimanda sia all’immagine degli spogliatoi, che ai significati delle due parole che compongono il titolo, ma nasconde una semantica più profonda.

Spogliare fa venire subito in mente l’atto di denudarsi, di togliersi i vestiti, ma il verbo spogliare ha anche altri usi legati sempre al principio di privazione: nelle guerre si spogliano i vinti dei loro beni, delle loro città, della loro dignità; nell’antichità un guerriero caduto in battaglia veniva spogliato della propria armatura, quindi di ciò che lo rendeva forte, resistente, proteggendolo dai colpi esterni; ci si spoglia emotivamente quando ci si confida apertamente con qualcuno; inoltre anche i resti di un corpo morto si chiamano spoglie, perché sono i resti esterni di una vita che non c’è più.

Su questa ampia semantica del verbo spogliare, su questa nudità umana ed emotiva completa e totalizzante, Luciano Melchionna costruisce il suo meraviglioso spettacolo. In più, alla prima parola del titolo associa la parola inglese toy che significa giocattolo, ma anche rimanda a chi si presta ad essere usato e manipolato.

A Luciano Melchionna piace giocare con la provocazione, ma la sua non è mai una provocazione lussuriosa, bensì una provocazione audace e libera da pregiudizi, in questo senso spregiudicata; una provocazione intellettuale che, attingendo a numerosi e profondi riferimenti della cultura e dell’attualità, costringe lo spettatore a confrontarsi con l’opera, con il suo messaggio, ma, soprattutto, con se stesso, mettendolo in un contatto emotivo diretto con ciò che l’opera rappresenta e dice. E’ questo che fa l’Arte.

Spoglia-toy possiede una drammaturgia simile allo spettacolo cult di Luciano Melchionna, Dignità Autonome di Prostituzione (DAdP): una prima parte corale di presentazione di concetti e contenuti, di preparazione alla parte centrale costituita dai monologhi degli attori tra i quali gli spettatori si distribuiscono e un’ultima terza parte a cui si accede nuovamente tutti insieme.

Una presenza muta e inquietante conduce gli spettatori in uno spogliatoio di calcio: undici ragazzoni a petto nudo con intorno alla vita solo un asciugamano con stampato il proprio numero sono in attesa di qualcosa. Si respira trepidazione. Arriva l’allenatore che comincia ad incitarli prima della partita. Con impeto e trasporto li carica, ricorda cosa rappresentano per le migliaia di spettatori che ad ogni partita si accalcano sugli spalti per vederli giocare e vincere, per i quali essi rappresentano lo sfogo di una vita  magari triste e noiosa e sui quali i tifosi riversano le speranze di un riscatto temporaneo, una fuga di novanta minuti più recupero dalla realtà e nei quali cercano uno sfogo alle loro frustrazioni.

Però, ricorda loro anche chi sono e li ammonisce a non montarsi la testa e ad impegnarsi sempre affinché il loro sogno e quello di migliaia di tifosi possa continuare. L’allenatore è una guida, un modello, è colui che deve conoscere tutti e approcciare con ognuno in maniera diversa.

Loro sono là: chi seduto, chi in piedi in disparte. Rispondono agli incitamenti con urla e cori caricandosi a vicenda. Quando è ora di scendere in campo i giocatori si dividono e ognuno prenderà posto in una stanza o in un angolo degli spazi circostanti la sala teatrale seguito da un gruppetto di spettatori (circa dieci a calciatore).

Qui avviene quel processo di privazione del titolo di cui si è scritto sopra: ogni calciatore è solo in quel momento e, tolta la veste da eroe delle masse, si rivela per quello che è: semplicemente un uomo con le proprie paure, i propri drammi, le proprie insicurezze. Quasi come in una confessione con se stesso, si apre al pubblico con un monologo.

Monologhi duri, forti, diretti; confessioni difficili; storie di vita che trasudano sofferenza, sacrificio. Monologhi che squarciano l’anima entrando nelle pieghe della mente e del cuore e toccano corde che forse aspettavano di essere pizzicate proprio in quel momento; flussi di parole che provocano tenerezza, qualche amara risata o magari suscitano piccole gioie impreviste. Quattordici minuti di immersione emotiva sconvolgente.

Poi si va tutti in sala: seduti come sugli spalti di uno stadio si è circondati dai giocatori che prima corrono intorno e recitano aforismi sul calcio, poi eseguono una coreografia, anch’essa ricca di simboli.

Infine è la volta di un monologo straordinario. Davanti a tutti si erge una figura di donna con indosso una maschera animale. Poggia la mano su un bastone, uno scettro forse. E’ l’incarnazione di tutto ciò che è spregiudicatamente commerciale, di tutto quel mondo fallace fatto di apparenza e sul quale fanno affidamento le società di marketing per fottere i clienti. Si confessa anch’essa, ammettendo colpe senza pentimento, sbattendo in faccia a ognuno la propria stupidità, la propria cecità di fronte alla manipolazione mediatica in genere.

Un monologo meraviglioso e difficile magistralmente scritto, come gli altri, da Luciano Melchionna e Giovanni Franci e interpretato dalla straordinaria Adelaide di Bitonto. Un monologo che possiede il meraviglioso dono di concentrare in brevi frasi efficaci concetti enormi creando immagini nitide e forti per le quali altri scriverebbero mille parole.

Meravigliosa presenza corale di grande impatto, grande carica, energia e tensione vengono diffusi intorno da questi bravissimi protagonisti, per poi scaricarsi, sfogarsi e “spogliarsi” durante i monologhi.

Ad ogni replica è possibile assistere ad un solo monologo: questo è un punto dolente, perché, soprattuto per chi è abituato a Dignità, un monologo è poco in confronto alla curiosità di conoscere le altre storie resta tanta. Altro motivo per tornare.

I complimenti quindi, oltre che alla già citata Adelaide di Bitonto, vanno tutti a Sebastiano Gavasso, con un monologo intimo e toccante interpretato, con perfetta inflessione veneta, con enorme trasporto e coinvolgimento riuscendo a creare una profonda empatia, elemento fondamentale a teatro.

Le scene di Chiara Carnevale si dipanano attraverso gli spazi del Piccolo Eliseo: docce, armadietti mezzi rotti, vecchie panche traballanti, attaccapanni, ogni cosa richiama uno spogliatoio così come i costumi di Milla, tra divise dorate e accessori vari.

Spoglia-toy è un altro spettacolo di Luciano Melchionna destinato a diventare un’esperienza imperdibile e da ripetere, scoprendo ogni volta particolari nuovi, per poterne vivere tutte le emozioni e coglierne appieno la simbologia.

Spoglia-toy - tommaso le pera 1 media

Spoglia-toy

Uno spettacolo di Luciano Melchionna

Testi di Luciano Melchionna e Giovanni Franci

Con Lorenzo Balducci, Orazio Caputo, Mauro F. Cardinali, Gennaro Di Colandrea, Adelaide Di Bitonto, Emanuele Gabrieli, Sebastiano Gavasso, Pierre Jacquemin, Gianluca Merolli, Fabrizio Nevola, Roberto Oliveri, Marcello Paesano, Agostino Pannone

Costumi Milla

Scene Chiara Carnevale

Musiche a cura di Riccardo Regoli

Installazioni fotografiche Mario Pellegrino

Assistente alla regia Sara Esposito

Consulenza sportiva Sebastiano Gavasso

Produzione Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro

FacebookTwitterPinterestGoogle +Stumbleupon