Recensione di Carlo Tomeo

Ritorna a Milano uno degli spettacoli più impegnativi nato nel 2015 e co-prodotto dall’ATIR Teatro Ringhiera insieme al Teatro Metastasio di Prato. L’ATIR che, sappiamo, quest’anno è “on the road” a causa dei lavori di ristrutturazione che il Comune di Milano ha promesso, quando seppe di dover lasciare la sua sede naturale per un anno, aveva già preparato il cartellone della sua stagione teatrale. Molti teatri offrirono allora la propria disponibilità a rappresentare gli spettacoli che l’Atir aveva in programma e adesso tocca al Teatro Filodrammatici ospitare la riproposta di uno degli spettacoli di maggior prestigio, che commuove e avvince gli spettatori dal 2015, rendendo sempre la sala sold out.
Utoya è l’isola che ogni anno ospitava i giovani socialdemocratici di tutto il mondo fino a quando l’11 luglio 2011 il terrorista Anders Breivick uccise 69 ragazzi (uno al minuto, prima che fosse fermato dalla polizia) e questo dopo averne ucciso prima altri 8 con un’autobomba a Oslo. Da questa carneficina Luca Mariani trasse un saggio, “Il silenzio degli innocenti” che interessò Serena Sinigaglia, la quale commissionò il testo teatrale a Edoardo Erba per curarne poi la regia.
La strage viene testimoniata da tre coppie che interagiscono su un palcoscenico spoglio, popolato da tronchi d’albero mozzati e cosparso di vetri: la prima coppia è costituita da una famiglia borghese di cui si capisce subito che l’uomo la fa da padrone, la seconda è formata da due contadini, fratello e sorella, che si scoprirà essere vicini di casa del terrorista con il quale non avevano alcun rapporto, la terza è rappresentata da una poliziotta e dal suo capo che lavorano in una stazione vicina a Utoya. Lo spettacolo inizia prima che avvenga la tragedia e ci presenta le tre coppie come vivono nella loro quotidiana, i rapporti intercorrenti fra di loro. La prima coppia accenna all’isola dove hanno mandato in campeggio la figlia, la coppia di contadini parla di questo strano uomo che è loro vicino e che fa una vita strana riempiendo un furgone di non meglio precisato materiale. Nella terza coppia la donna, che interpreta il poliziotto, vorrebbe avere un permesso dal suo capo che non glielo concede perché non richiesto per tempo.
Finché si viene a conoscenza della strage avvenuta sull’isola e diverse sono le reazioni delle tre coppie.
Si scopre a questo punto che siamo tutti coinvolti in una nuova realtà, dove “prima”ci sembrava di poter vivere tranquillamente, non cogliendo il malessere che interagiva dentro il nostro inconscio e faceva a pugni con il vivere di tutti i giorni, come se tutto quello che ci accadeva attorno non lasciasse alcun sentore di prossimi e vicini accadimenti tragici che avrebbero cambiato la nostra vita e avrebbe portato a galla le contraddizioni del nostro essere e i pericoli che potevano guastare una società fondamentalmente nata falsa.
Le coppie che agiscono sulla scena dialogano in maniera che ci sembra normale, specie la prima coppia che rappresenta una borghesia bieca, dove ciascuno dei due vuole realizzare egoisticamente un proprio desiderio: lei vuole un gatto che il marito le nega, lui vuole vivere tranquillamente ed è contento che la figlia, andata al campeggio a Utoya, lo lasci senza molestarlo con le continue richieste di denaro, che, d’altro canto, essendo lui benestante, è disposto a elargirle purché non lo infastidisca. Intanto la donna si specchia in un pezzo di vetro rotto, simbolo, questo, che qualcosa si sta sgretolando nel loro modo di vivere e di pensare.
Poi la notizia della tragedia che sembra far aprire gli occhi a chi amava tenerli chiusi per “meglio riposare la mente” La coppia più sconvolta è quella che sapeva di avere la figlia al campeggio e non sa se essa è ancora viva. Solo verso la fine se ne saprà la sorte.
La strage di Utoya ha rappresentato un punto di non ritorno: ha spalancato la porta dietro la quale era ben rinchiusa la nostra mente e ora siamo in grado di capire che la società in cui viviamo può contenere il male e quindi suscitare paure, orrori che prima credevamo di non conoscere fino in fondo.
La regia di Serena Sinigaglia è stata particolarmente felice nel momento che ha scelto di non suddividere in tre parti distinte e con abiti diversi le tre coppie, ma di unirle in una sola coppia che cambiava atteggiamento e modo di parlare durante la conversazione. All’inizio la cosa può sembrare disorientante, ma ci si abitua subito e si riesce a capire di volta in volta chi è il personaggio che sta parlando in quel momento e che è avvenuto un cambio di persona, che può essere la signora borghese, o la contadina o la poliziotta (questo nel caso dell’attrice). Altrettanto avviene nel caso dell’attore che interagisce con la donna).
I due attori Arianna Scommegna e Mattia Fabris,che sostanzialmente rappresentano sei personaggi diversi sono di una bravura esemplare e, in particolare Arianna Scommegna, che recentemente, nel giro di due mesi, ho avuto modo di apprezzare in tre ruoli completamente diversi gli uni dagli altri.
Da elogiare in particolare Serena Sinigaglia, sia per la scelta registica di cui si è detto sia perché ha intuito che dal saggio di Luca Mariani si poteva trarre uno spettacolo di impegno sociale.
Teatro affollatissimo in ogni ordine di posti con aggiunta di sedie per accontentare più persone possibile. Tutti i posti in teatro sono già prenotati fino all’ultimo giorno di rappresentazione.
Utoya
di Edoardo Erba
con la consulenza di Luca Mariani
regia Serena Sinigaglia
con Arianna Scommegna e Mattia Fabris
scene Maria Spazzi
luci Roberto Innocenti
co-produzione : ATIR Teatro Ringhiera e Teatro Metastasio di PratoTeatro Filodrammatici
con il patrocinio della Reale Ambasciata di Norvegia in Italia.
Maria Spazzi è vincitrice del Premio Hystrio-Altre Muse 2017
Si ringraziano Antonietta Magli dell’ufficio stampa del Teatro Filodrammatici e Maurizia Leonelli dell’ufficio stampa dell’ATIR Teatro Ringhiera.
In scena al Teatro Filodrammatici di Milano dal 9 al 14 gennaio