Giancarlo Fares, oltre che essere da tutti apprezzato sia come regista che come attore, è da anni considerato uno dei migliori docenti di recitazione, attività che svolge da anni presso le più rinomate scuole per attori presenti in Italia.
Giancarlo comincia gli studi presso l’Accademia Sharoff sotto la guida di Aldo Rendine e Luigi Durassi specializzandosi nel metodo Stanislavskij; in seguito studia, prima come allievo e poi come assistente, nel “Progetto Biomeccanica” presso il Teatro dell’Orologio di Roma lavorando con Eugenj Fatiushenko del Teatro D’arte di Mosca, Riccardo Vannuccini, Guido Aristarco, Caterina Merlino e realizzando due spettacoli come attore ( Enrico IV di Pirandello e La cimice di Majakovskij ) e uno come regista ( Vladimir Majakovskij ).
Segue per alcuni anni i seminari di Eugenio Barba, Torger Wethal, Julia Warley, Roberta Carreri e Tage Larsen dell’Odin Teatret, Mamadou Douane (attore di Peter Brook) e ultimamente il maestro russo Anatolij Vassiliev .
Per diversi anni è attore e aiuto regista del grandissimo Giancarlo Sepe, collaborando nella ricerca su musica, gesto e parola e lavorando in spettacoli come Ballando Ballando di J.P. Panchenant; Marathon: la città della musica di G.Sepe; Madame Bovary di G. Flaubert; Cine H di G.Sepe; Carmen di P. Merimée e, ultimo, Le favole di Oscar Wilde .
Ha studiato canto con il maestro Sergej Romanoff e con il tenore Roberto Bencivenga.
In seguito ha dedicato la sua ricerca personale al teatro di narrazione.
Come attore ha lavorato con Giancarlo Sepe, Mario Scaccia, Antonio Salines, Federica Tatulli, Francesco Silvestri, Mario Moretti, Gigi Palla, Caterina Merlino, Roberto Bencivenga, svolgendo tournee in Italia e all’estero.
Ha partecipato a numerose produzioni televisive e cinematografiche.
Dal 1995 ha firmato la regia di importanti spettacoli teatrali affrontando autori come Pirandello, Beckett, Brecht, Shakespeare, Sofocle, Moliere, Sartre, Ionesco, Albee, Mrozek, Pinter, Lorca, Majakovskij, Queneau, Bogosian, De Benedetti.
Ha scritto e diretto inoltre numerosi spettacoli di Teatro di narrazione con tournée in Italia e all’estero.
Dal 2006 al 2009 ha insegnato Tecnica Teatrale e Tecniche di Narrazione alla Link Academy di Roma.
L’occasione di intervistare Giancarlo Fares mi viene data in occasione della imminente presentazione (28 e 29 agosto) al Festival di Todi dello spettacolo Emigranti di cui è regista e anche protagonista insieme a Marco Blanchi.
Emigranti è un testo di Slawomir Mrozek (uno dei suoi maggiori successi a livello mondiale), drammaturgo e scrittore polacco, intellettuale che ha vissuto in prima persona il disfacimento culturale del proprio paese e aperto contestatore del regime comunista polacco.
E’ la storia di due uomini “senza nome”, due emigrati diversi per ceto e mentalità (un operaio e un intellettuale) che vivono in una cantina di una città straniera e si raccontano e scontrano la notte dell’ultimo dell’anno nel loro piccolo rifugio quando fuori, sopra di loro, la città festeggia.
Giancarlo, leggendo in maniera superficiale la traccia del racconto, verrebbe subito da pensare che sia la storia di due estranei in terra straniera che, venendo in contatto, potrebbero sodalizzare per far fronte insieme alle difficoltà di essere sconosciuti in un paese che non li conosce.
Invece, ad una lettura più approfondita, non sembra essere così.
Presentaci questi personaggi senza nome, che sembrano essere due mondi diversi, anche opposti, rappresentanti, ognuno a modo suo, di una condizione umana fatta di miseria (reale e spirituale).
I due personaggi sono diversi e distanti, si ritrovano nella stessa situazione per scelta opportunistica. Ognuno è vittima e carnefice dell’altro. Si relazionano in tutti i modi possibili, è una lotta sociale, ma anche un conflitto spirituale.
Nessuno dei due può vincere, essi incarnano un concetto caro a J.P. Sartre:
“ L’inferno sono gli altri “.
Emigranti è il racconto di una condizione: l’essere migranti in una terra straniera, spesso completamente sconosciuta, di cui, magari, non si conoscono la lingua, gli usi e nemmeno le leggi. Vengono date risposte durante questo percorso? Quali?
Nessuna risposta. Sono i tentativi di sopravvivenza a risultare interessanti.
Emigranti è un testo del 1974 che raccoglie il vissuto personale dell’autore, Slawomir Mrozek, esule volontario in giro per l’Europa dopo la rottura con il proprio paese di origine, la Polonia, a causa dell’aperta contestazione del regime comunista polacco (preceduta dalla crisi di fiducia e dalla critica del socialismo reale).
Oggi, a distanza di 40 anni e vista l’enorme attualità del problema, enorme in termini di urgenza e in termini di numeri, cosa è cambiato e come è cambiato il punto di vista sull’emigrazione?
Cosa e quanto ancora oggi un simile testo può dare e suscitare?
Cambiano i contesti, le nazioni, ma le situazioni sono sempre le stesse.
Il problema è grave e dilagante. Noi siamo tornati ad essere Migranti. L’Italia torna, nonostante la sua bellezza e le sue smisurate potenzialità, ad essere una terra di passaggio, per molti dei suoi abitanti e per gli stranieri.
Il testo fa riflettere sulla condizione di un Emigrante. Molti Italiani all’estero si trovano a vivere quello che vivono i nostri protagonisti. E’ una situazione tragicomica, assurda, surreale, fortemente teatrale. Io sono orgogliosamente amico di un emigrante che ha fatto della sua condizione la sua forza; Eugenio Barba. I suoi racconti della Norvegia sono molto simili a quelli dei due protagonisti di questo testo.
Slawomir Mrozek è famoso per il suo stile ironico e tagliente e la capacità di affrontare anche il tema più ingombrante con leggerezza e un umorismo graffiante e surreale. Giancarlo, che tipo di narrazione sottende Emigranti?
Mrozek è un autore straordinario. I suoi testi sono poco visitati nel nostro paese mentre sono dei classici all’estero. Non ha nulla da invidiare a Pinter, Pirandello, Beckett, per citarne alcuni. Emigranti è un testo che può essere letto a vari livelli, non a caso è stato rappresentato sia in taglio fortemente realistico che in taglio surreale. In ogni caso non perde la sua specificità. E’ come un prisma che si rivela cromaticamente sorprendente a seconda del punto di vista.
Quali scelte registiche sono state fatte per rappresentare al meglio l’ironia del testo, mantenendo la drammaticità della situazione? Oltre che nelle parole e nei racconti, come vengono rappresentate le differenze? Con quali gesti, quali abitudini? Quale scelta registica e stilistica lega la parola al gesto?
La regia si basa sull’equilibrio tra reale e surreale. La scena, i costumi, le interpretazioni, vivono al limite del grottesco. E’ un difficile e meraviglioso gioco teatrale. La difficoltà consiste nel giocare con il linguaggio e con le parole nascondendo il gioco agli occhi dello spettatore.
D’altronde in teatro “Nulla è reale ma tutto deve essere vero”.
Come può essere mantenuta e preservata la universalità del messaggio in un testo che nasce in una situazione politica e sociale così diversa da oggi? Come può ancora oggi il microcosmo dei due protagonisti essere rappresentazione di un macrocosmo? Come può il dentro (la cantina, il vissuto, il modo di essere, pensare, vivere, il mondo del singolo…) diventare fuori e il fuori (evoluzione, contestazione, rivoluzione, progresso, diffidenza, il mondo sociale) entrare dentro?
E’ tutto in ciò che è scritto, in ciò che viene detto. Questo testo è bello per questo.
Contiene passaggi filosofici e momenti da commedia popolare. Il macro e il micro coincidono spontaneamente, si incontrano senza scontrarsi, si fondono semplicemente.
Lì vi è il tutto e il niente. La scena di Alessandro Calizza ne è l’esempio. E’ assolutamente piena di vuoto. E’ metafora di condizione e condizione stessa. Vedere per credere.
Abbiamo parlato delle scelte registiche e delle soluzioni stilistiche, ma tu sei anche uno dei due protagonisti.
Come è stato il tuo approccio al testo come attore? Sei un esponente di spicco del Teatro di narrazione: come ti sei avvicinato a questo testo e attraverso quali canali lo hai fatto entrare dentro di te?
Quando incontri un bel testo è facile entrarci in contatto. Il testo è una macchina che funziona o non funziona, in questo caso funziona meravigliosamente. I personaggi sono carne, leggerli è come sentir parlare qualcuno. Esistono. Raccontano e si raccontano. Io e Marco Blanchi siamo amici da molti anni, abbiamo fatto insieme molti spettacoli. Ma è la prima volta che recitiamo insieme. Averlo accanto è uno dei segreti di questo lavoro. Un grande attore che allo stesso tempo è un tuo grande amico.
Il testo diventa la chiave per narrarsi l’un l’altro. È come fare musica. Due musicisti che suonano insieme. Suonando Chopin.
A questo poi aggiungo il preziosissimo lavoro di Vittoria Galli e Viviana Simone.
Emigranti è un testo che è stato rappresentato più volte in più paesi. Qual è stata l’esigenza che ti ha avvicinato a questo testo e cosa pensi di aver apportato o aggiunto col tuo allestimento?
Non so se abbiamo dato qualcosa di nuovo a questo testo. Sicuramente lui ha dato qualcosa a noi. Spero fortemente che possa dare qualcosa anche al pubblico. In fondo è molto bello fare teatro. Ma è il pubblico che conta. Io faccio teatro per me ma anche per gli altri. Soprattutto per gli altri. Quando scelgo un testo penso se possa essere utile, se possa emozionare, divertire, far riflettere.
E’ la principale esigenza che ho. Non è un pensiero commerciale. E’ umanista. Voglio condividere.
Ringrazio moltissimo Giancarlo Fares per essere stato così disponibile e ricordo a tutti che Emigranti sarà al Festival di Todi il 28 e 29 agost
Vi invito, inoltre, a seguirmi per scoprire la programmazione di Emigranti nelle altre città, perché è sicuramente uno spettacolo da non perdere.