Nella prima parte della chiacchierata con Giancarlo Nicoletti abbiamo parlato del Teatro in genere, di ciò che ha fatto, di ciò che lo muove e di quali sono le sue finalità.
Proseguiamo e scopriamo qualcosa di più.
Prosa, Musical, Commedia Musicale: nel tuo cuore sono sullo stesso piano?
La prima scelta è e rimane il Teatro e il piacere di raccontare una storia, il resto sono mezzi di comunicazione: puoi utilizzare il cantato o il recitato: comunque è sempre vita che viene raccontata. Non mi interessa la bravura dell’attore o del cantante o la spettacolarità: si deve pensare che sono sempre al servizio di una storia, servono a raccontare. Nei miei lavori il racconto è sempre la prima cosa.
Quindi il teatro ha qualcosa da dire al pubblico, ha una funzione sociale? Un valore educativo?
A me non piace pensare che io debba insegnare qualcosa a qualcuno, assolutamente no. È pericoloso dire “voglio educare qualcuno”: presuppone che tu abbia un dogma. Io non voglio educare nessuno. La mia non è una crociata ideologica. Nei miei spettacoli, sebbene inevitabilmente il pensiero dell’autore un po’ traspaia, non c’è mai l’intenzione di dare un messaggio univoco, una verità; non mi interessa fare proselitismo; non ci sono prese di posizione sulle cose né la volontà di dire agli altri che devono pensarla così. Certo, una presa di posizione minima deve esserci, però non c’è mai la volontà di dire “pensatela come me”. Non c’è propaganda. Non è questa la funzione sociale del teatro. Il pubblico lo puoi educare, e quindi abituare, forse, al mezzo: al mezzo della qualità, al mezzo di non essere facili, di non essere superficiali, pur regalando intrattenimento. Che poi, intrattenimento è spettacolo che quindi è tutto, ci si diverte quando si ride, ma anche quando si piange; il pubblico sicuramente non puoi mollarlo sul concetto di spettacolo, di rappresentazione e di empatia.
Allora per esempio vedendo Chess, che mi sembra un grande lavoro, ma complicato, complesso, difficile, pensi che sia un prodotto valido per l’Italia?
Guarda, la reazione a Chess è stata paradossalmente più favorevole da parte degli ambienti legati alla prosa che da quelli legati al musical e forse era quello che volevo; e forse se continuerò (e continuerò) a fare teatro musicale lo farò in questo senso, lo farò perché io credo che il teatro musicale possa avere una dignità forte di contenuti, di racconto che non sia relegata alla spettacolarizzazione da un lato e basta, fine a se stessa o alla leggerezza. Il teatro musicale può essere come tematiche, come contenuti, come qualità al pari del teatro di prosa e in America e in Inghilterra è così ci sono tanti titoli che in Italia non si fanno (Chess è uno di questi), perché si dice che non vendono. Oggi in Italia si fa o il family show o la cosa comica dove la canzone diventa momento di leggerezza o la cosa spettacolare. Il mio filone, quello che sto cercando, è un altro, e con Chess abbiamo aperto questa strada e se continuerò a fare teatro musicale, sarà quello il filone: dire che il teatro musicale non è solamente intrattenimento e spettacolarizzazione, ma c’è un teatro musicale che ha stessa dignità contenutistica, stilistica, drammaturgica del teatro di prosa. Ci sono tanti, tanti titoli che hanno questa dignità. So per certo che non è una strada facile ma le strade facili non mi piacciono: paradossalmente penso sia più facile e comodo fare anche un certo teatro di prosa sperimentale che risente ancora del retaggio anni ‘70 dove “se non capisci è bello”; è molto facile fare quel tipo di spettacoli, come fare la commedia ruffiana, senza rischi, garantita. Niente in contrario, però sono due filoni facili. Io sto cercando la strada di mezzo tra quello che è il pubblico e quello che è la ricerca e la sperimentazione. Non è facile però è quello che voglio, quello è il respiro europeo: io sto cercando un teatro europeo che si liberi dallo stilema italiano e post democristiano del “quieta non movere”, stai su quello che funziona e non ti preoccupare. No! Ci può essere un’altra strada, in Europa c’è ed io cerco quella.
Tu sei siciliano e la Sicilia ha una tradizione antichissima, basti pensare al già citato Teatro Greco; inoltre i siciliani hanno un attaccamento speciale, viscerale con la propria terra che si risente spesso nelle loro opere. Come concili tutto questo immenso e splendido mondo con la tua apertura all’Europa?
Sono siciliano, amo la mia terra, è fantastica, ma non posso distogliermi dal pensiero di vivere in Europa, cerco la contaminazione con quello che viene dalla Germania, la Francia, l’Inghilterra, la Spagna, il Sudamerica, perché la strada è lì, stiamo nel mondo globale e dobbiamo essere globali. Allora utilizzo il localismo, quella che è la mia provenienza per declinarla nel globale. È un po’ quello che c’è in Festa Della Repubblica. Io penso che nei miei lavori non si veda un forte attaccamento alla terra, cerco di fare respirare in maniera ampia la provenienza. Non voglio legarmi a un concetto territoriale forte. Io adoro la mia terra però in Festa Della Repubblica ho voluto citarla proprio relegandola al suo stereotipo e giocando su di esso: credo sia un modo diverso di raccontarla, meno poetico, forse, ma più funzionale.
I personaggi di Festa Della Repubblica sono ricchi di sfumature e passibili di diversi tipi di lettura. Rientra tutto nell’impegno e la volontà di scrivere su più livelli di cui abbiamo parlato prima?
Dei testi e dei personaggi di Festa Della Repubblica scopri le potenzialità incredibili dopo. Mi sono accorto che di tante cose che scrivi sul momento non ne capisci le potenzialità: le capisci quando poi le vai a mettere in scena e ne fai la regia. E allora anche in te stesso lo scollamento tra drammaturgo e regista è fortissimo, le cose le realizzi dopo. Ho realizzato delle complessità in Festa Della Repubblica e delle pieghe del testo come se il testo non fosse mio. La cosa incredibile è stata la rassegna stampa, entusiastica: però ognuno ci ha letto cose diverse e cose non ci sono assolutamente nel testo e lì ti dà la cifra della straordinarietà, della varietà dell’essere umano. Qualcuno ci ha tacciato di essere sopra le righe e ruffiani e mi ha divertito molto. Io capisco anche questo: capisco di essere scomodo per una nicchia culturale che vuole il teatro non disponibile nei confronti del pubblico; qualsiasi cosa si apra un minimo alla disponibilità verso il pubblico, restando però con un grandissimo ancoraggio di significato, risulta ancora fastidioso, fuori dagli schemi. Ma mi va bene e mi diverte molto. Il teatro è la vita, la rappresentazione delle cose che accadono nella nostra vita. Qualcuno ha criticato Festa Della Repubblica perché i personaggi sono , tra l’altro volutamente, a senso unico, non hanno una evoluzione: è vero, ma il concetto è molto più sottile perché i personaggi si evolvono piccolissimamente. Siccome tutti i personaggi, tutti e 11, durante l’evoluzione della storia, vivono il momento clou della propria esistenza, quel momento che cambierà loro la vita per sempre, proprio in quel momento la realizzazione cinica, la realizzazione forte è quella per cui chiunque, nel momento più difficile non cambia, non fa altro che tornare alla propria natura più intrinseca, perché l’essere umano si àncora a quelle che sono le proprie certezze su se stessi e sulla vita. Noi non cambiamo sul momento: io cambierò nel tempo dopo aver realizzato e metabolizzato quello che mi è accaduto nel momento. È un feticcio drammaturgico, epistemologico, di senso quello per il quale il personaggio nella drammaturgia deve evolversi: gli esseri umani non si possono evolvere in un minuto, l’evoluzione è una cosa lunga, lenta. È un retaggio, una trovata drammaturgica, sicuramente valida, ma lasciamola al fine ottocento ibseniano. Inoltre In Festa Della Repubblica la storia si sviluppa in 24 ore: i personaggi non possono cambiare, evolvere. È la storia che si evolve intorno a loro e loro ritornano a se stessi, ritornano alle certezze – poche – che hanno in se stessi.
Invece in #salvobuonfine?
In #salvobuonfine c’è una evoluzione diversa dei personaggi, ma comunque è dilatata: lì, il protagonista muore perché non riesce a cambiare se stesso, resta fortemente radicato in se stesso; quella è comunque una verità, la gente non cambia subito, il processo di cambiamento ha bisogno di tempo. I personaggi intorno a lui però cambiano, si evolvono, maturano, anche pesantemente. Il tema del testo è nato da un fatto di cronaca, la violenza subita da un ragazzo, mesi fa, tramite la pompa di aria compressa: quello che mi ha stupito è che fosse chiaro che per le modalità dell’aggressione si trattasse di un’aggressione a stampo omofobo mentre i media ce l’hanno venduta come una ragazzata per prendere in giro il ragazzo perché grasso. Andando un po’ ad approfondire la verità del discorso, la storia era tutt’altra. #salvobuonfine ha una forza rispetto ad altro teatro a tematica omosessuale che si fa: è uno spettacolo molto critico sul tema. Non è apologetico, non c’è difesa, e soprattutto non c’è l’omosessuale inteso come l’escluso, il relitto della società. C’è la volontà di riportare tutto alla realtà, coi pregi e coi difetti . Anche questa è una presa di coscienza di respiro europeo. #salvobuonfine è un ragazzo di vita, un ragazzo di vita pasoliniano, è un Tadzio di Morte a Venezia, ma moderno: in un certo senso è tutto declinato nell’Italia di oggi, nel problema culturale dell’Italia di oggi. L’intenzione non è voler riflettere sulla punta dell’iceberg, ma alla base. È un testo che punta sulla base dei problemi culturali generali italiani: l’omofobia è uno, ma ce ne sono centomila.
Quindi cosa ci possiamo aspettare per il tuo prossimo lavoro? Continuerai questo percorso mettendo in luce altri “peccati” italiani?
Sì. Presumo che il prossimo testo tratterà della famiglia e del problema xenofobo però con il tratto surreale anche comico, ma cattivo di Festa Della Repubblica. Il problema degli immigrati è all’ordine del giorno, verso il quale non sai mai come porti perché effettivamente è spinoso: da un lato dici “arrivano, dobbiamo accoglierli” dall’altro dici “arrivano e fanno i danni”, dall’altro “non c’è lavoro per gli italiani, deve esserci per gli stranieri?”; come la giri la giri non sei mai convinto non solo della risposta, ma anche della domanda. Poi ho letto qualche settimana fa che il governo inglese vuole fare una legge che non vuole più gli italiani n Inghilterra e non vuole più la libera apertura dei confini della Unione Europea: sembra un po’ la Germania di 30, 40 anni fa come era per i meridionali italiani. Il problema dell’immigrazione è un problema enorme, che l’Italia ha vissuto con un fortissimo flusso migratorio dal sud verso il nord, quindi anche interno al paese e non è che e è meno devastante per chi emigra andare a Milano o a Torino, perché comune è la lontananza, c’è l’abituarsi a qualcosa che è altro da te quindi credo che il prossimo testo parlerà dell’immigrazione degli italiani all’estero. Non voglio dire la mia sul problema, io voglio che si prenda coscienza in maniera diversa del problema; io, la mia sulla questione, neanche la so. Non è quello il mio fine, dire quello che penso sul problema: il mio fine è registrare e mettere in scena. Io non faccio l’educatore. Certo è difficile non metter il proprio punto di vista, uscirà per forza, però devi stare attento che non sia l’unico. Devi dare la possibilità dei vari punti di vista perché è tutto lì e lo impari dalla grande tradizione drammaturgica mondiale. Una drammaturgia forte è una drammaturgia che ti pone il problema, ti scuote di fronte al problema, ma ti lascia libero.
D’altronde anche #salvobuonfine è così: tu non dai una soluzione. Lorenzo, il tuo personaggio è altrettanto difficile perché abbandona, ha il coraggio di lasciare, ma anche l’egoismo, forse sano egoismo, di lasciare e non voler sapere. Sceglie se stesso.
Però non gli dai la possibilità di conciliarsi con se stesso, di vivere il senso di colpa, di superarlo, di superare il lutto.
Assoltuamente: Lorenzo dice: “adesso esco, faccio due passi, ascolto la musica giusta”. Strappa le pagine con la dedica. Lorenzo è un intellettuale: è agghiacciante l’intellettualismo fine a se stesso di certa gente. Qui, però, c’è apertura alla vita, si va avanti, c’è la scelta di se stessi. Lorenzo dice anche: “Istinto di sopravvivenza, diresti tu? Credo sia proprio quello: alla fine ci si salva sempre”. E’la verità, perché la gente sceglie la propria salvezza. C’è un realismo forte, forse cinico, ma non cattivo, perché non da possibilità di riscatto. Non è un testo solo sull’ omosessualità e sull’omofobia: volevo sì scrivere qualcosa che avesse questi temi, ma parlasse a tutti, per dire che tutti siamo diversi, non ci sono distanze, le dinamiche umane sono uguali indipendentemente dalla cultura, dalla lingua, dall’ età, dall’estrazione culturale, sociale e dall’orientamento sessuale. Ci sono distanze, ma l’essere umano è uno alla fine: è l’istinto di sopravvivenza alla fine che vince.
Un’ultima cosa: in Festa Della Repubblica (e in Chess prima) lavori con Stefania Fratepietro, donna e artista che adoro (non riesco a finire la domanda, gli occhi si illuminano e risponde subito).
Stefania è fantastica e io l’adoro. Una vera professionista, un’eccellenza italiana nel panorama teatrale. E, soprattutto, una vera amica: ci lega una profonda stima reciproca e un grande affetto. Una persona e un’artista straordinaria con un talento incredibile: non capisco come mai non sia ancora diventata una Star! (perché siamo in Italia, caro il mio Giancarlo Nicoletti, non in Europa e, meno che mai, negli Usa).
Termino in bellezza con una frase che dà il segno dell’ottimismo di Giancarlo Nicoletti. Parlando del futuro del Teatro ha dichiarato:
un futuro c’è per forza, un futuro c’è per tutto grazie a Dio. Bisogna decidere cosa si vuole fare.