Da molto tempo non parlo con la mia terra è un tentativo di spiegare la Sicilia attraverso le parole dei suoi più grandi autori: Salvatore Quasimodo, Tomasi di Lampedusa, Leonardo Sciascia, Giovanni Verga, Luigi Pirandello e tanti altri.
Siamo in Sicilia; la scena si apre con un riferimento al grandioso passato di questa meravigliosa terra, culla della Magna Grecia e crocevia fondamentale nel corso dei secoli, soggetta a dominazioni diverse che ne hanno segnato la storia, la cultura, l’arte e il carattere.
Ad aprire questo racconto è un Polifemo, Fabrizio Catalano, nonché regista dello spettacolo e nipote di Leonardo Sciascia.
La scena si sposta poi in un bar, luogo di incontro, chiacchiere e riflessioni. Un luogo-non-luogo che può essere qui e altrove, adesso e domani come ieri, luogo di passaggio e di incontro di vite.
In questo spazio metafisico le vite dei cinque protagonisti si incrociano e ne viene fuori il tentativo di raccontare e spiegare la Sicilia e l’essere siciliani. La risposta è ricca di sconforto, quasi scoraggiata, ma anche dolce.
“Come si può essere siciliano? Con difficoltà; dolorosa e gioiosa difficoltà”.
I protagonisti allora racconteranno se stessi, le proprie vite, illusioni e disillusioni, con le parole dei più grandi scrittori siciliani.
Ne verrà fuori un racconto nostalgico, di una terra meravigliosa e magica, spesso abbandonata dai suoi abitanti perché non offre abbastanza.
Un racconto che sa di limoni, di spiagge incontaminate, di mare cristallino, di sole, ma anche di vite isolate, di aspri silenzi, spesso colpevoli.
Nelle stesse parole dei protagonisti è reso chiaro che spiegare la Sicilia è impossibile; forse per questo il regista parlando del suo allestimento lo ha definito più un esperimento che uno spettacolo vero e proprio, e forse l’esperimento è proprio questo: portare la Sicilia agli altri, tentando di spiegarla.
La stessa caratteristica di insularità rende questa terra isolata, lontana dal continente, quasi un mondo a parte e questo elemento si trasferisce nel siciliano stesso: solitario, orgoglioso, silenzioso, contento di poco.
Da molto tempo non parlo con la mia terra è un racconto nostalgico, ma non triste; è il desiderio di ricordare le proprie radici e di celebrarle, portandone il ricco significato alla luce, agli altri.
C’è consapevolezza di un modo di essere e di pensare, ma non c’è rassegnazione: “ci hanno rubato il sole, riprendiamocelo!”.
Io che amo questa terra e i suoi abitanti, che porto negli occhi il colore del mare e l’odore degli agrumi e delle verdure, che amo i suoi cibi gustosi e ricchi, che conosco la gente di questa terra ho apprezzato molto questo allestimento. Mi sono avvicinato al significato dell’essere siciliano e mi sono ritrovato in quella difficoltà raccontata di afferrarlo e spiegarlo in pieno.
In scena Maurizio Nicolosi il barista che fa da collegamento tra i personaggi e intona canzoni di un tempo lontano; il bravo e preso Paolo Gattini, che è il saggio, l’uomo che ne ha viste e ne sa tante, l’uomo che guarda, sorride e tenta di condurre gli altri ad una pacata riflessione; Giada Colonna interpreta la siciliana per antonomasia: mora, dalle morbide curve, passionale.
Alessio D’Amico che avevo già notato con interesse e apprezzato recentemente al Festival dei Nuovi Tragici e che qui conferma grandi doti facendo intravedere per lui una buona carriera.
Infine, Goffredo Maria Bruno, Il Siciliano: geloso, possessivo, burbero, scaltro, ma pronto a recitare poesie alla propria donna. Ottima esibizione per lui.
Se di esperimento dobbiamo parlare, posso dire che le basi sono notevolmente buone; come in ogni spettacolo al suo debutto, qualcosa potrà essere migliorato, nei tempi in scena, guadagnando in scioltezza, limando o aggiungendo (questo sarà il regista a deciderlo), ma il prodotto è valido, buono e soddisfacente.
Alla fine dello spettacolo rimane una sensazione di dolce nostalgia e le parole dei grandi autori siciliani risuonano nelle orecchie, risvegliando impressioni e sensazioni. Un sentimento di leggera malinconia dove accoccolarsi, riscaldarsi, ma dal quale, poi, bisogna destarsi per risollevarsi pronti all’azione e alla reazione.