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Recensioni, Teatro, Teatro

I soliti ignoti – Recensione

soliti

I soliti ignoti

Teatro Ambra Jovinelli

2 gennaio 2020

In scena al Teatro Ambra Jovinelli e poi in tournée fino a marzo 2020, I soliti Ignoti fa il tutto esaurito ad ogni replica.

La commedia è la prima versione teatrale del mitico film di Monicelli,  scritto con Age & Scarpelli e Suso Cecchi D’Amico, qui presentata nell’adattamento teatrale di Antonio Grosso e Pier Paolo Piciarelli.

Adattare un classico è sempre una sfida rischiosa e difficile: mantenere la fedeltà all’originale può far inevitabilmente insorgere confronti; adattarlo in chiave moderna potrebbe disturbare i puristi, ma anche aggiungere qualcosa di nuovo o contemporaneo.

Antonio Grosso e Pier Paolo Piciarelli scelgono la prima via, restituendo una drammaturgia fedele all’originale con la quale riescono a mantenere vivi e freschi gli scapestrati personaggi di un’epoca lontana che, però, ci parla anche del presente.

I soliti ignoti racconta le gesta maldestre ed esilaranti di un gruppo di ladri improvvisati nell’Italia povera, ma vitale del secondo dopoguerra. Siamo nel 1958, la guerra è finita da un po’, eppure la situazione economica è precaria: un litro di latte costa ottantatré lire, alla radio danno Nel blu dipinto di blu, i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.

Sullo sfondo di una Roma scalcinata, un gruppo di disperati, non delinquenti veri e propri, ma uomini semplici, senza troppe aspirazioni e con poca voglia di lavorare, ladruncoli per necessità, decidono di mettere a segno un colpo che potrebbe sistemarli a vita.

Le cose non andranno come preventivato e il gruppo si scioglierà deluso e senza più troppe aspirazioni, salutandosi davanti a un ottimo piatto di pasta e ceci.

I soliti ignoti è una commedia amara e divertente che riflette lo spirito dell’opera di Monicelli e ne riporta il senso di contemporaneità. La regia di Vinicio Marchioni restituisce efficacemente l’equilibrio con cui Monicelli rende un argomento drammatico in modo leggero.

Insieme a lui, nei panni di Tiberio, Giuseppe Zeno (Peppe, il pugile), Augusto Fornari (Cosimo), Salvatore Caruso (Capannelle), Vito Facciolla  (Ferribotte) e  Antonio Grosso (Mario), interpretano i protagonisti di questa storia con una commistione di amarezza e riso sempre ben bilanciata, sempre in bilico l’una sull’altro: non si ride realmente mai, si sorride piuttosto, anche amaramente, perché la vita spesso ci mette in situazioni buffe, paradossali o ci presenta un conto da pagare che non ci aspettavamo.

Il gruppo è perfettamente equilibrato nei ruoli e nei caratteri, riuscendo tutti a far rivivere quella duplicità dei personaggi nei loro aspetti ironici e nei risvolti drammatici.

L’unico ruolo che si discosta dall’interpretazione originale è quello di Dante Cruciani, l’esperto di scassinamento di casseforti, qui interpretato da Ivano Schiavi e che nel film fu ricoperto dal grande Totò e in cui molti critici videro il passaggio da un certo tipo di commedia italiana ad una nuova Commedia all’italiana.

L’impressione generale in questo adattamento è che la cupezza predomini sull’entusiasmo di questi sgangherati ladri: d’altronde la commedia all’italiana è proprio trattare argomenti drammatici con toni divertenti e ironici.

Sono proprio le parti che inducono a maggiore riflessione ad essere più potenti: il commiato di Cosimo (Augusto Fornari) è un momento di forte intensità emotiva, al pari, c’è da dire, degli altri momenti di introspezione dei vari personaggi che rivelano un’umanità semplice e schietta.

Completa il cast la brava Marilena Anniballi nel doppio ruolo di Carmela e Nicoletta.

Lo spettacolo finisce prima di dove termina il film lasciando una sensazione di disfatta, ma anche di malinconica arresa, non un senso di sconfitta schiacciante, quanto quasi una rassegnazione ad uno stato di cose che non può mutare.

I soliti ignoti

adattamento teatrale di Antonio Grosso e Pier Paolo Piciarelli

tratto dalla sceneggiatura di Mario Monicelli, Suso Cecchi D’Amico, Age & Scarpelli

regia Vinicio Marchioni

con Vinicio Marchioni, Giuseppe Zeno, Augusto Fornari, Salvatore Caruso, Vito Facciolla, Antonio Grosso, Ivano Schiavi, Marilena Anniballi

Scene Luigi Ferrigno

Costumi Milena Mancini

Luci Giuseppe D’Alterio

Musiche Pino Marino

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Recensioni, Teatro, Teatro

L’Eternità Dolcissima di Renato Cane

Teatro Brancaccino

4 novembre 2016

L’Eternità Dolcissima di Renato Cane parla di vita attraverso il pensiero e la paura della morte.

Renato Cane è un rappresentante di psicofarmaci che scopre improvvisamente di avere un tumore fulminante. La notizia, come è ovvio che sia, lo sconvolge: Renato Cane non vuole morire. Egli ha una moglie e un figlio e non vuole lasciarli così, all’improvviso.

L’idea della malattia e dell’imminente morte, getta Cane in uno sconforto totale. Da lì nella sua mente mille pensieri si affastellano in un delirio a volte farneticante, altre volte lucido col quale Cane pensa alla vita. Considerazioni confuse, ma profonde che lo portano a realizzare quanto tempo si spenda in vita per allontanare il pensiero della morte.

Viviamo per colmare le nostre necessità; purtroppo oggi viviamo per lavorare perché senza lavoro non possiamo produrre e se non produciamo non possiamo acquistare e siccome la nostra è una società iper consumistica in cui ad ogni soddisfazione di un bisogno segue un altro bisogno, la nostra vita è una continua ricerca di qualcosa che forse non avremo mai. Non puoi permetterti di essere triste o depresso perché la vita, non la morte, non te lo concede. In questo precipitoso corso di vita, ogni nostra azione è determinata ad affermare la nostra esistenza e non la nostra non esistenza e, quindi, la morte.

Allora, si chiede Cane, come rendere appetibile la morte? Come avvertirla come esigenza?

La vita di Cane crolla rovinosamente: sta per morire e la moglie non lo desidera più perché lo considera un morto potenziale. Non siamo, però, tutti un po’ morti potenziali? L’unico appiglio alla vita che gli resta, sono le pitture schiacciate che si scambia con una bambina conosciuta su un treno.

In questo turbinio mentale di disperazione tratteggiata, però, con macchie di ilarità, Cane si imbatte in un’agenzia di pompe funebri molto particolare che gli promette l’eternità.

Da qui la narrazione diventa anche grottesca tra i pensieri in conflitto nella testa di Cane e i discorsi col nano proprietario dell’agenzia di pompe funebri che gli promette una felice eternità.

Poi un colpo di scena, ma forse è tardi. Cane ha perso tutto e riflettuto così tanto sulla vita da aver trovato la sua risposta ad una domanda che gli aveva posto il nano “Sei proprio sicuro, Cane, che vivere sia meglio che morire?”.

L’Eternità Dolcissima di Renato Cane è un monologo di Valentina Diana che ci porta a farci delle domande, le stesse che vengono poste al protagonista dall’assurdo responsabile delle pompe funebri.

Ci ritroviamo così a pensare alla nostra vita, dettata dal consumismo, persa dietro al bisogno di accumulare, di fare, di produrre sempre più e perdiamo di vista la nostra essenza più pura e bella.

Lo spettacolo parla della vita attraverso la sua negazione e lo fa con leggerezza e ironia, perché realmente la vita è talmente assurda che tanto vale prenderla con il sorriso.

Marco Vergani è il bravissimo protagonista di questo spettacolo. Tra gestualità, voci diverse e carica espressiva, ci dona un mondo di emozioni. Alcuni momenti sono davvero toccanti, come quando Cane se la prende col proprio corpo per averlo tradito; altri portano ad avere un moto di compassione nei confronti del protagonista.

Io, però, penso anche altro di questo spettacolo. A me ha suscitato un’interpretazione diversa probabilmente rispetto alle intenzioni dell’autrice e del regista Vinicio Marchioni.

L’uso delle luci al neon, posizionate simmetriche sui due lati, colorate (una bianca, due rosse, una blu e una verde), le figure della moglie e del figlio di Cane, a cui si allude solamente con un abito appeso da una parte e un joystick dall’altra, le pitture schiacciate così simili alle macchie di Rorschach, i pensieri spesso intrecciati del protagonista che sembra rivolgersi a volte ad un altro sé, la possibilità di altri mondi che diano un’eternità felice, il fatto stesso che il protagonista venda e usi psicofarmaci, mi hanno fatto cambiare totalmente prospettiva.

Sì, forse a Cane realmente é stato diagnosticato un tumore mortale, ma questo è stato solo l’evento che ha scatenato uno sdoppiamento del personaggio, portandolo ogni volta dentro e fuori di sé.

Andando contro il testo stesso, io non ho visto Cane come un morto potenziale, quanto, piuttosto, come un uomo affetto da un disturbo psichico che nella sua mente crea situazioni e personaggi.

Lo stesso personaggio del nano, che è anche zoppo e curvo e parla con voce che sembra provenire da altrove, ricorda alcuni personaggi di altre illusioni oniriche. Allora i neon potrebbero essere quelli di un ospedale e il mondo 19 che Cane sceglierà e in cui si dorme in sei in una stanza, si sta tutti in armonia e tutti fanno disegni schiacciati, potrebbe essere un reparto psichiatrico, così come il mondo 2 che alcune voci gli consigliano.

Quale che sia l’interpretazione, L’Eternità Dolcissima di Renato Cane è uno spettacolo che fa riflettere sulla bellezza della vita, ma anche sulla solitudine. Perché alla fine, quando moriamo, siamo soli.

L’Eternità Dolcissima di Renato Cane

Di Valentina Diana

Regia Vinicio Marchioni

Con Marco Vergani.

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