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Comunicati stampa, Teatro

TEATRO ELISEO: Gabriele Lavia presenta il suo spettacolo da Jacques Prévert

lavia

Teatro Eliseo

18 febbraio – 1° marzo 2020

                             Foto di Filippo Manzini

I ragazzi che si amano

Uno spettacolo di e con

Gabriele Lavia

da Jaques Prévert

Costumi Elena Bianchini

Musiche Giordano Corapi

Produzione Teatro Eliseo

L’amore giovanile e il rapporto degli innamorati con la realtà. Gabriele Lavia dice Jacques Prévert e tocca emotivamente gli animi fin dal primo verso.

Chi sono I ragazzi che si amano? Siamo noi. E chi ha provato “questo amore / così violento / così fragile / così tenero / così disperato”? Siamo sempre noi. E tutto questo è detto semplicemente, senza distanze, né soggezione, né alcuna sacralità. Così Gabriele Lavia presenta il suo spettacolo da Jacques Prévert,

I ragazzi che si amano, sull’amore giovanile e il rapporto degli innamorati con la realtà. I giovani, estraniati dal mondo e dimentichi di tutto, non tengono conto della chiusura morale della gente verso la loro dolcezza.

Tra citazioni colte (da Magritte a Presley, da Picasso ai Beatles, da Heidegger a Hopper), Lavia ci ‘illumina’ – anche solo per pochi istanti, quelli che servono per ‘tre fiammiferi uno dopo l’altro accesi nella notte / il primo per vederti tutto il viso / il secondo per vederti gli occhi / l’ultimo per vedere la tua bocca’ – con il chiarore della poesia.

Due ragazzi si amano e si baciano al tramonto. La gente che passa, vedendoli, li disapprova indignata, ma loro non notano nulla, non ci sono per nessuno, vivono esclusivamente nel loro primo amore. Perché l’amore tra due giovani deve essere disapprovato, come se fosse qualcosa di proibito? Forse, perché i giovani hanno ancora il coraggio, che deriva dall’incoscienza o dall’innocenza dei loro anni, di manifestarlo liberamente, di viverlo come amore.

I ragazzi che si amano racconta un amore salvifico che dà l’unico senso possibile alla vita, un amore a cui aggrapparsi come naufraghi nel mare delle amarezze e ingiustizie dell’esistenza, un amore totalizzante che rigenera e crea un mondo in cui non c’è spazio per altri, in cui non esiste più niente se non i due giovani amanti. Ciascuno di noi può ritrovare echi e immagini della propria adolescenza.

Prévert non vuole essere diverso da noi – prosegue l’attore e regista – non vuole farsi notare. È vestito di grigio. Porta impermeabile e cappello. La domanda è: che cosa siamo noi? Noi, siamo tutta la vita. Noi ci amiamo e noi viviamo, noi viviamo e noi ci amiamo… Con un colpo di scena che ci dà la misura della grandezza di questo autore, Il poeta ci dice che noi non sappiamo che cosa sia la vita, non sappiamo che cosa siano i giorni e non sappiamo che cosa sia l’amore. L’essere è soltanto nella non-coscienza di sé.

L’amore e i giovani: niente e nessuno esiste più attorno a loro, poiché essi non appartengono più a questo mondo, ma a un altro, che vive nell’accecante calore del loro sentimento. Questo amore rigenera l’esistenza, rende unici e straordinari, crea un mondo e annulla gli altri, rende invisibili e senza paura. È un amore che libera.

“I ragazzi che si amano sono in un altrove, dunque – interviene Lavia – per quanto riguarda l’universo di Prévert si tratta di una realtà post platonica, in cui gli uomini vivono in un luogo delle ombre tipico della dimensione della caverna e al contrario i ragazzi che si amano stanno dove c’è la luce sconosciuta fuori dalla caverna. Jacqués Prévert – al di là della popolarità delle sue parole d’amore – è un poeta estremamente complesso, un poeta strano, che ha attraversato tanti momenti diversi e che ha voluto usare le parole di tutti i giorni per esprimere concetti così profondi”.

Lo spettacolo è dunque un percorso affascinante e coinvolgente con una guida d’eccezione attraverso le ‘nebbie’, non solo del porto del celeberrimo film di Marcel Carné, ma anche delle cave fumose in cui Juliette Greco cantava Le foglie morte e delle immancabili sigarette Gauloises ‘papier mais’ tanto amate da Prévert.

DURATA: atto unico, 1 ora e 15 minuti

TRAILER: https://youtu.be/YlN69zKyWJU

TEATRO ELISEO

Da martedì 18 febbraio a domenica 1° marzo 2020

Biglietteria tel. 06.83510216

Giorni e orari: lun. 13 – 19, da martedì a sabato 10.00 – 19.00, domenica 10 – 16

Via Nazionale 183 – 00184 Roma

Biglietteria on-line www.teatroeliseo.com e www.vivaticket.it

Call center Vivaticket: 892234

Orario spettacoli:

martedì, giovedì, venerdì e sabato ore 20.00

mercoledì e domenica ore 17.00

sabato 22 febbraio doppio spettacolo ore 16.00 e ore 20.00

Biglietti da 15 € a 35 €

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Recensioni, Teatro, Teatro

Vetri rotti – La paura paralizza – Recensione

rotti

Vetri rotti

Teatro Eliseo

4 febbraio 2020

 

In scena al Teatro Eliseo Vetri rotti, il testo di Arthur Miller tradotto da Masolino D’Amico, diretto da Armando Pugliese e che è valso ad Elena Sofia Ricci il Premio Flaiano 2018 per l’interpretazione.

Siamo a Brooklyn nel 1938. Sylvia Gelburg resta improvvisamente paralizzata alle gambe: non esistono cause cliniche al suo stato e il dottor Herry Hyman si convince sempre di più che si tratti di un blocco psicologico, di un trauma che Sylvia ha somatizzato con l’immobilità. Phillip, il marito di Sylvia, non riesce ad affrontare questa nuova situazione, arrivando a credere che questa sia una punizione della moglie nei suoi confronti.

Sylvia è una donna ebrea sconvolta dagli eventi che stanno accadendo in Germania: i nazisti distruggono le vetrine dei negozi degli ebrei, li deridono, li umiliano, costringendo i vecchi a pulire le strade con gli spazzolini da denti. Sylvia trascorre le giornate assorte nella lettura dei giornali che riportano le notizie di questi tragici eventi.

Di contro, Phillip sembra nutrire un’avversione per gli ebrei non americani, creando una distinzione tra ebrei ed ebrei, stupendosi dell’esistenza di ebrei cinesi, avendo in mente una sola definizione di giudeo.

Frequentando la donna per tentare di curarla, il dott. Hyman scava nei rapporti tra lei e il marito cercando di entrare nella psicologia dei due coniugi. Nel frattempo tra Sylvia e Herry nasce un’attrazione, una sorta di dipendenza.

Parallelamente ai drammatici accadimenti storici che avvengono in Europa e da cui Sylvia è fortemente turbata, altri eventi ne sconvolgono la mente e l’anima. Sylvia un tempo era una donna molto appagata dal proprio lavoro a cui dovette rinunciare per compiacere il marito. Dopo la nascita del figlio, tra lei e Phillip qualcosa si è spezzato tanto che sono venti anni che non hanno più rapporti.

I due si amano, o almeno dicono di amarsi, eppure sono ormai distanti. Phillip è un ebreo che non vuole essere ebreo o, almeno, non vuole apparire ebreo. I suoi discorsi spaventano Sylvia che inizia ad avere “paura” di lui.

Andando avanti nella narrazione la dimensione storica e quella personale dei protagonisti si andranno sempre più ad accavallare, fino ad un finale risolutivo e illuminante.

Il testo di Arthur Miller è sicuramente affascinante per i dettagli personali e psicologici di tutti i personaggi e per quel suo indugiare su dialoghi ripetitivi che sembrano stagnare la situazione e farla procedere con grande lentezza.

I Vetri rotti del titolo sono certo un riferimento chiaro alla Notte dei cristalli, ma anche al progressivo incrinarsi della relazione tra Sylvia e Phillip.

Il testo è una riflessione sull’identità ebraica che si esprime nei punti di vista diversi dei protagonisti e che si dipana in una struttura di dialogo continuo fatto di affermazioni e negazioni, da dove non emerge una visione univoca, ma diversi punti di vista. Non solo per i due protagonisti: lo stesso dott. Hyman si pone nel mezzo tra Sylvia e Phillip, rappresentando un ulteriore spunto di riflessione.

Forse per la stessa struttura del testo Vetri rotti in scena al Teatro Eliseo risulta uno spettacolo verboso, esageratamente prolisso. Uno stile certamente più adatto ad un libro, nei cui dialoghi potersi immergere, ma eccessivo per una rappresentazione teatrale. Già nel primo atto si è in attesa di un accento, di una svolta, di qualcosa di diverso che stenta ad arrivare e l’attesa non è sufficientemente sostenuta da altri elementi drammaturgici.

Il finale, inoltre, unico momento di sblocco dello stallo, arriva piuttosto scontato, senza particolare attesa o trasporto.

Lo spettacolo è certamente bello non solo per i messaggi di cui si fa portatore, ma anche per le interpretazioni di tutti gli attori, eppure resta distante, appare scollato, privando le scene di una consequenzialità e di un collegamento fluido.

Quello che resta, però, è importante. Oltre al monito storico, culturale, politico e sociale sui pericoli dell’antisemitismo, Vetri rotti esplora l’animo umano, sondandone la vulnerabilità. Una fragilità che diventa paura, una paura che si impossessa del corpo fino a paralizzarlo.

Inoltre, Vetri rotti dimostra come lasciando andare le cose, lasciando correre, abituandosi alla routine, seppellendo i problemi, senza affrontarli, senza parlarne, tutto cade e lentamente si muore. Muore ciò che siamo dentro e muore ciò che potremmo essere per gli altri e con gli altri.

Elena Sofia Ricci propone un’interpretazione forte e convincente; Maurizio Donadoni ci mette carica e potenza. Ma è David Coco a risaltare in scena, per l’approccio al personaggio, per presenza.  Così come il suo Herry si inserisce con garbo, delicatezza, intelligenza e un pizzico di malizia nel rapporto tra Sylvia e Herry, così Coco riesce a destreggiarsi con padronanza, eleganza e forza espressiva con le interpretazioni concitate dei due protagonisti.

Completano il cast Elisabetta Arosio, Alessandro Cremona, Serena Amalia Mazzone.

 

Vetri rotti

Di Arthur Miller

Traduzione Masolino D’Amico

Regia Armando Pugliese

Con Elena Sofia Ricci, Maurizio Donadoni, David Coco

e con Elisabetta Arosio, Alessandro Cremona, Serena Amalia Mazzone

Scena Andrea Taddei

Costumi Barbara Bessi

Luci Gaetano La Mela

Musiche Stefano Mainetti

Produzione ErreTiTeatro30

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Recensioni, Teatro, Teatro

Glauco Mauri è King Lear per Baracco

lear

King Lear

Teatro Eliseo

28 gennaio 2020

Dopo due allestimenti da lui interpretati e diretti (1984 e 1999), Glauco Mauri torna a vestire i panni di Re Lear questa volta sotto la direzione di Andrea Baracco.

King Lear è una storia di guerra, ambizione e sopraffazione, di falsità e tradimenti, una storia di figli contro i padri e di padri contro i figli, ma il King Lear di Baracco è soprattutto la storia di un padre stanco che sente avvicinarsi la propria fine, ha paura e cerca conforto nell’amore delle figlie, nella loro devozione.

In quella regressione che accompagna la vecchiaia quando è segnata da una demenza senile, il padre cerca protezione, diventa figlio dei propri figli, pur volendo ancora esercitare l’autorità genitoriale, reclamata anche a gran voce, ma solo per mantenere un minimo di aderenza a ciò che si è stati e al ruolo genitoriale.

Lear è di certo un re, anzi forse è soprattuto re, perché un uomo con un’investitura così importante mette al primo posto il proprio regno, il potere, l’ambizione e le responsabilità. Il Lear di Baracco, però, interpretato magistralmente da Glauco Mauri, è solo un uomo, vecchio e debole, la cui mente vacilla, ma che con ostinazione e orgoglio cerca di resistere al decadimento fisico e mentale e cerca aiuto nella figlie, cerca conforto, compassione, pietà ed esige rispetto per non sentirsi completamente perso, morto prima del tempo.

Tornerà Re solo alla fine, quando, avendo attraversato il dolore e la follia, rinsavirà in tempo per riconoscere l’amore e la devozione della figlia Cordelia, da lui precedentemente disconosciuta e diseredata. Sarà Re nelle  sue braccia, nel calore e nell’affetto di quell’unica figlia sincera che saprà amarlo e rispettarlo fino alla fine, riconoscendogli l’autorità e l’onore che si devono ad un padre.

Glauco Mauri mette nel proprio Lear l’esperienza e le sofferenze di una vita, della sua vita, e questo si sente.

Sul palco con lui un Roberto Sturno giusto e misurato, esprime il contraltare di Lear.

Tra loro e con loro un folto gruppo di attori e attrici alcuni dei quali regalano ottime interpretazioni.

Bravissimo Francesco Sferrazza Papa nei panni di Edgar, ma ancor di più in quelli di Tom, nella sua follia inventata: luce nell’oscurità della tragedia e guida nella cecità del padre.

Aleph Viola riesce a rendere pungente, fastidiosa come ortica, l’ambiguità a tratti melliflua di Edmund, velenoso come un serpente e raccapricciante nel suo diabolico piano.

Enco Curcurù fornisce una buonissima e solida prova nelle doppie vesti di Kent e del fedele servo in maschera di Lear, riuscendo a colorare il personaggio nelle sfumature.

Dario Cantarelli è il matto, personaggio reso surreale eppure quanto mai aderente alla realtà. Interessanti la presenza scenica e la prova attoriale di Francesco Martucci.

Non hanno altrettanta potenza le interpreti femminili, Linda Gennari (Goneril), Aurora Peres (Regan) ed Emilia Scarpati Fanetti (Cordelia). Brave, non c’è che dire, ma meno incisive.

La drammaturgia è quella classica di Shakespeare, ma la regia di Baracco, la traduzione di Letizia Russo, la riduzione e l’adattamento di Andrea Baracco e Glauco Mauri, i costumi di Marta Crisolini Malatesta, le musiche di Giacomo Vezzani e Riccardo Vanja, le proiezioni di Luca Brinchi e Daniele Spanò, le luci di Umile Vainieri portano segni di contemporaneità non sempre tutti condivisibili.

Baracco osa, si mette in discussione e corre il rischio e ciò è apprezzabilissimo, eppure sembra mancare uno slancio, come se rimanesse in bilico tra la tradizione e una volontà di innovazione. Si resta come sospesi in attesa di uno squarcio, uno strappo che non arriva.

Quello che forse mancava come aspettativa personale, il regista lo condensa in chiave diversa nella scenografia funzionale e nel dinamismo continuo della scena.

Le lettere a caratteri cubitali che compongono la scritta King Lear e ruotano offuscando la maestà e lasciando l’uomo; la struttura in legno e metallo che copre l’intera larghezza sullo sfondo del palco fungendo sopra  da ballatoio e dotata sotto di pannelli velati che aprono ad accessi nascosti; i ripetuti passaggi dall’alto al basso e viceversa e le frequenti entrate dalla platea determinano un dinamismo costante.

Infine da notare l’interessante inserimento del monologo di Amleto, “Essere o non essere”, che sgorga dalla bocca di Gloucester (Roberto Sturno).

Re Lear

di William Shakespeare

Traduzione Letizia Russo

Riduzione e adattamento Andrea Baracco e Glauco Mauri

Regia Andrea Baracco

Con Glauco Mauri, Roberto Sturno

e con Dario Cantarelli, Enzo Curcurù, Linda Gennari, Paolo Lorimer, Francesco Martucci, Laurence Mazzoni, Aurora Peres, Emilia Scarpati Fanetti, Francesco Sferrazza Papa, Aleph Viola

Scene e costumi Marta Crisolini Malatesta

Musiche Giacomo Vezzani e Riccardo Vanja

Luci Umile Vainieri

Produzione Compagnia Mauri Sturno

Fondazione Teatro della Toscana

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