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Recensioni, Teatro, Teatro

Un Pirandello scevro da intellettualismi e lontano da azzardate sperimentazioni in L’uomo, la bestia e la virtù con la regia Giancarlo Nicoletti. Teatro Brancaccino, 7 febbraio 2019. Prima

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In occasione del centenario dal debutto sulle scene, Giancarlo Nicoletti, regista e autore contemporaneo e spesso illuminato, dirige al Teatro Brancaccino una delle commedie più rappresentate di Pirandello: L’uomo, la bestia e la virtù.

La cifra è quella della contemporaneità, della concretezza di senso, all’insegna di una rappresentazione scevra da intellettualismi, da interpretazioni accademiche a volte oziose e da sperimentazioni teatrali spesso fuorvianti. Resta ciò che è e non ciò che potrebbe essere: restano lo scandalo e la sovversione; resta la vita col proprio cinismo, la propria ferocia, la propria ironia drammatica e comica, la propria realtà spesso grottesca. Resta il caso che si fa beffe della vita degli uomini.

L’uomo, la bestia e la virtù è una storia fatta di maschere che si mescolano. Il signor Paolino (Giorgio Colangeli), è un professore privato dalla doppia vita: è l’amante della signora Perella (Valentina Perrella), moglie trascurata di Francesco (Filippo Gili), un capitano di mare sempre in giro, che torna raramente a casa, ha un’altra famiglia con un’altra donna a Napoli ed evita di avere rapporti intimi con la moglie. La situazione potrebbe rimanere invariata a lungo, ma il caso vuole che la signora Perella rimanga incinta del professore. Paolino dovrà adoperarsi in tutti i modi per far sì che il capitano Perella, di ritorno da uno dei suoi viaggi e in partenza già il giorno successivo, passi una notte d’amore con la moglie. Sarà imperativo per “l’uomo” salvare la propria dignità e “la virtù” della sig.ra Perella convincendo “la bestia” ad assolvere ai propri doveri coniugali. Intorno a loro si muovono poi una serie di personaggi bizzarri e disturbanti, ma reali e concreti.

Un gioco di maschere: la prima è l’uomo, il professore che dietro al suo perbenismo offusca la virtù della sig.ra Perella, la seconda maschera, che a sua volta si lascia violare nella sua stessa virtù, perché trascurata dal marito, la bestia, terza maschera, agli occhi di tutti un uomo rude ed egoista.

Eppure, l’uomo, la bestia e la virtù si mescolano; le maschere cambiano faccia all’occorrenza, dimostrando che ognuno può indossare l’una o l’altra o l’altra ancora e chissà ancora quante al bisogno, pur convincendosi di rimanere sempre lo stesso.

E’ un gioco delle parti fondato sull’ipocrisia, così come subito dovremmo accorgerci dall’abbrivio, quando il professore, tenendo una lezione privata, spiega ai propri allievi l’origine e il significato della parola ipocrita.

La commedia, composta di tre atti qui sviluppati in due tempi, scorre tra la farsa, la commedia e il dramma, rappresentando la vita e i suoi personaggi con realismo e, quindi, con ironia e cinismo. Il caso domina gli eventi, scombinandoli e suscitando reazioni esasperate e grottesche.

Ogni elemento è presente, nudo e crudo, diretto, forte ed efficace. Anche l’elemento pirandelliano classico del teatro nel teatro viene riprodotto con  assoluta spontaneità e naturalezza quando Colangeli riprende Gili per un’uscita di scena errata: sembra una distrazione dell’attore, invece è un intelligente espediente di Nicoletti per ancorarci alla poetica del drammaturgo siciliano e allo stesso tempo alla realtà.

I protagonisti dimostrano grandissima aderenza alle proprie maschere. Giorgio Colangeli è strabiliante. Rapido, fermo, agitato, convulso, confuso, disperato, sollevato, sempre in bilico tra l’essere e l’apparire, tra ciò che si prova e ciò che si deve dimostrare agli altri: passa con suggestione e coinvolgimento attraverso tutte le sfumature e le esasperazioni del proprio personaggio.

Valentina Perrella è sempre bravissima: qui lascia parlare molto l’espressività, soprattutto nella seconda parte quando il suo personaggio, svuotato e disperato, si lascia agire e si sottomette alle intenzioni altrui, ormai quasi senza più volontà e forza, animata da qualcun altro. Bellissima la virata finale, nell’ultima scena, quando lo sguardo, la postura e l’atteggiamento cambiano registro e rappresentano chiaramente il cambiamento di stato d’animo.

Filippo Gili è forte, aggressivo: riesce bene a rappresentare l’incapacità di amare del proprio personaggio, l’inadeguatezza ad essere marito e padre e la frustrazione che ne deriva. Eppure carica un po’ troppo, esasperando spesso e forzatamente l’interpretazione.

Tra i personaggi minori è da citare assolutamente la doppia interpretazione di Cristina Todaro nei panni delle due governanti; la prima, Rosaria, curiosa e impicciona, la seconda, Grazia, rigida, scortese e dal linguaggio spicciolo. Grandissima espressività e carica comica incorniciata in due personaggi che non diventano mai macchiette.

Giancarlo Nicoletti si ritaglia uno spazio nei panni del farmacista scroccone Totò, simpatico, buffo, un ometto semplice eppure con un proprio codice civile. Un’interpretazione bella e ben integrata in questo gioco di personalità diverse.

Alessandro Giova è Nino, dottore, fratello di Totò, a cui Paolino si rivolge per ricevere aiuto: Alessandro ben si cala nell’elemento razionale del racconto, nella logica che contrasta il caos degli eventi.

C’è poi il piccolo Francesco Petit-Bon nei panni del piccolo e dispettoso Nonò, figli dei Perella: a proprio agio sul palco si muove con agilità e l’impertinenza adeguata.

Infine i due allievi del professore, i divertenti e spontanei Alessandro Solombrino e Diego Rifici (che interpreta anche il marinaio).

La regia è frizzante e dinamica, incentrata sui personaggi. La scenografia è essenziale anche  per lasciare spazio alla vitalità dei personaggi.

La direzione è orientata, come scritto in apertura, alla concretezza, alla rappresentazione di ciò che è, senza orpelli, senza soluzioni di maniera. Tutto arriva senza mediazione e con forza, forse anche eccessiva a volte. Il secondo tempo, sebbene concentri il secondo e terzo atto dell’opera, è un po’ troppo lungo e indugia troppo nella confusione: tutto questo urlare alla fine diventa ridondante e rischia di stancare lo spettatore. Questa è l’unica riserva che, onestamente, si può avere e che domani potrebbe essere sciolta grazie all’intelligenza creativa di Nicoletti e alla professionalità di un cast di grande rispetto.

Foto di Luana Belli

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Altra Scena & I Due della Città del Sole

presentano

L’uomo, la bestia e la virtù

di Luigi Pirandello

Regia Giancarlo Nicoletti

con Giorgio Colangeli, Filippo Gili, Valentina Perrella, Cristina Todaro, Alessandro Giova, Diego Rifici, Alessandro Solombrino, Francesco Petit-Bon

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Recensioni, Teatro, Teatro

Se potessi farne vivere uno solo, chi sceglieresti tra tuo padre e tua madre? Dall’alto di una fredda torre. Teatro Argot, 4 ottobre 2017.

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Se potessi farne vivere uno solo, chi sceglieresti tra tuo padre e tua madre?

Il dramma di una malattia che avanza inesorabile e mortale sconvolge le vite e le menti di fratello e sorella. Si impone una scelta tragica: chi salvare tra il padre e la madre?

Dall’alto di una fredda torre affronta un’inquietante antinomia: se sia giusto o meno intervenire modificando il destino degli altri, sostituendosi ad esso e prendendosi l’enorme e pesantissima responsabilità di decidere della vita e della morte di qualcun altro.

La vita di una famiglia come ce ne sono tante, con i propri quotidiani conflitti, ma serena, viene stravolta da un evento tragico: entrambi i genitori sono affetti da una malattia mortale e rarissima.

L’unica soluzione è quella di un trapianto di cellule staminali prelevate dai parenti più prossimi. I soli parenti della coppia sono i due figli, Antonio ed Elena: solo Elena è compatibile per il trapianto, ma non può essere sottoposta a due interventi consecutivi in così breve tempo.

A questo punto è necessario decidere: chi salvare?

In quattordici quadri si dipana una tragedia umana e familiare. La quotidianità della famiglia viene stravolta. Soprattutto, la vita di Antonio ed Elena entra in un lungo tunnel buio che sembra senza fine. I genitori sono all’oscuro di tutto. Il peso della scelta grava solo sui figli.

Il bellissimo e drammatico testo di Filippo Gili affonda con angosciosa lucidità nella disperazione di due figli.

In un intenso percorso drammaturgico lo spettatore conosce i quattro protagonisti nelle loro sfumature  psicologiche. Attraverso i discorsi affrontati a tavola entra in contatto col mondo interiore di ognuno  conoscendone il pensiero sui vari aspetti della vita e della morte.

Un gioco di ipotesi cominciato durante un pasto in famiglia si trasforma, ironia della sorte, in una tragica realtà a parti inverse.

Come in una lenta infusione, si passa dal clima di serenità e quiete familiare, fatto dei discorsi di tutti i giorni o argomenti più seri affrontati senza una reale consapevolezza, al dramma esistenziale di due figli che si trovano a doversi sostituire a Dio e decidere della vita e della morte dei propri genitori.

Così, come quando si versa acqua bollente su delle erbe per estrarne l’essenza, sui due giovani incombe un fato funesto che li porterà a doversi confrontare con se stessi, con l’amore per i propri genitori, con l’ingiustizia della vita e con un futuro di solitudine.

Il testo scatena riflessioni esistenziali, scavando a fondo nella psicologia di tutti e sei i protagonisti e restituendo, con scambi dialettici rapidi, feroci e sferzanti, ma anche lunghi silenzi, tutta la rabbia e la frustrazione dettate da un’impotenza che paralizza cuore e mente e che esplodono con la devastazione di un cataclisma spezzando tutti gli argini.

Allo stesso tempo crea un effetto di identificazione nello spettatore, sollevando nella sua mente e coscienza una serie di amare e drammatiche considerazioni e dubbi morali su questioni primarie e fondamentali, sul senso stesso della scelta.

Scegliere della vita e della morte di qualcuno, tra l’altro di qualcuno che si ama in maniera assoluta, ma, soprattutto, prendere consapevolezza che anche non scegliere fa parte della scelta.

Potrebbe sembrare che Antonio ed Elena sottovalutino i propri genitori celando loro la verità e negando loro la possibilità di scegliere autonomamente del proprio destino, ma essi li conoscono bene e sanno come reagirebbero alla notizia, caricandosi così di un enorme peso che graverà per sempre sulle loro coscienze.

Di contro viene rappresentato un punto di vista altro che è quello dei medici, della scienza che deve andare avanti a tutti i costi, in virtù del principio del male minore: scegliere chi sacrificare affinché l’altro possa sopravvivere si impone come un imperativo categorico e deontologico a cui non ci si può sottrarre. L’etica professionale, però, del bellissimo e rigido personaggio della dottoressa, rischia di diventare una scusa dietro cui nascondere una tracotanza che porta a sostituirsi al fato o a Dio.

Anche la divisione dello spazio scenico e il disegno luci sono ottimamente funzionali al testo e ai messaggi espressi. Di volta in volta vengono messi a fuoco tre ambienti diversi: al centro il tavolo da pranzo dove la famiglia si ritrova parlando della vita quotidiana; ad un estremo lo studio medico in cui il dramma ha inizio e si svolge nello scontro tra coscienze, tra cosa sarebbe necessario fare e cosa si è disposti a fare; all’alto estremo il salotto di un’altra casa in cui fratello e sorella si incontrano per confrontarsi, consolarsi e scontrarsi buttando fuori tutto il proprio dolore, manifestando i propri incubi, una sorta di spazio della coscienza. Intorno sta il pubblico, a stretto contatto con i personaggi e la loro storia.

Il testo, oltre alla tragicità della vicenda, regala intensi momenti di commozione e di tenerezza in un meccanismo di privazione che tiene l’anima sempre sospesa: appena essa si turba fino quasi a far lacrimare, subito quel moto che ha creato l’emozione viene sostituito da altro, che siano gli intensi scontri verbali oppure i lunghi silenzi carichi di dolore, tormento, indecisione e senso di colpa.

In scena sei attori di straordinaria bravura che abbracciano con tutti se stessi questi personaggi doandogli voce e corpo, facendoli vivere nei loro gesti, nelle loro espressioni così cariche di pathos in una recitazione viscerale.

La regia di Francesco Frangipane è precisa e tagliente. Non indugia nel pietismo, ma si concentra sulle emozioni e sulle azioni e reazioni che esse dettano. La suddivisone in spazi scenici rappresenta i compartimenti stagni in cui spesso siamo costretti a dover dividere i vari eventi della vita per evitare di impazzire e soccombere a certe emozioni, sofferenze e frustrazioni. Eppure la vita è un flusso e le contaminazioni tra spazi sono inevitabili. E’ a quel punto che scopriamo quanto siamo capaci di sopportare.

 

Dall’alto di una fredda torre

Argot Produzioni

di Filippo Gili

regia Francesco Frangipane

con Massimiliano Benvenuto, Ermanno De Biagi, Michela Martini, Aglaia Mora, Matteo Quinzi

musiche Jonis Bascir

scenografia Francesco Ghisu

costumi Sabrina Beretta

light designer Giuseppe Filiupponio

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Comunicati stampa, Teatro

Masterclass con Pier Giorgio Bellocchio e Filippo Gili.

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PIANO SEQUENZA IBSEN
Masterclass sulla recitazione cinematografica e teatrale
con Pier Giorgio Bellocchioo e Filippo Gili

La masterclass si terrà dal 21 al 25 novembre, tutti i giorni, allo Spazio Diamante – Accademia delle Arti Performative, Via Prenestina 230, dalle ore 9 alle ore 17.

Programma
Il focus sarà sull’ultima, immensa scena del capolavoro ibseniano “Spettri”.
I primi due giorni saranno dedicati all’approfondimento esegetico e recitativo.
Gli ultimi tre giorni saranno dedicati direttamente alle ‘riprese’; tra macchina fissa, steadycam e carrello, tra stacchi e piani sequenza.
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Con questa masterclass ci si propone di aprire un filone trasversale dell’indagine sul ‘dire’ la battuta. Unendo, della drammaturgia, il caposaldo antico con quello moderno: teatro e cinema. Un focus interpretativo che tenga sotto controllo, questa volta, più che gli elementi scenici e gli altri attori, la macchina da presa, le sue esigenze di luce, di fuoco, di bilanciamento dell’inquadratura in movimento, di impenetrabilità dei corpi. Fino a chiudere un’intera scena non per una platea, non per degli spettatori vivi, ma dentro un progetto ‘monitorato’, dentro un piano sequenza.
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A tutti i partecipanti alle masterclass verrà rilasciato, a fine corso, un DVD con estratti delle loro performances. Il costo della masterclass è di 250 euro per singolo partecipante.

Per iscrizioni inviare Curriculum Vitae e Foto all’indirizzo altrascena@yahoo.it; allo stesso indirizzo è possibile scrivere per avere informazioni.

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Pier Giorgio Bellocchio
Figlio del regista Marco Bellocchio e dell’attrice Gisella Burinato, respira aria di cinema fin dai suoi primi vagiti.
È ancora bambino quando il padre lo fa debuttare come attore accanto a sua madre e a lui ne Vacanze in Val Trebbia (1980), cui seguirà anche Salto nel vuoto (1980). Dal 1980 al 1997, si dedicherà agli studi come un comune ragazzo adolescente, salvo tornare a recitare nel cortometraggio paterno Elena (1997) e da lì in poi in altre pellicole, sempre diretto dal padre, come: La balia (1999) con Michele Placido, Fabrizio Bentivoglio e Valeria Bruni Tedeschi, Buongiorno, notte (2003), Sorelle (2006), Vincere (2009) e Sorelle Mai (2011).
Altre pellicole nelle quali ha avuto un ruolo, non necessariamente dirette da suo padre sono state Radio West (2003) e Melissa P. (2005), ma è mancata la sua partecipazione neanche a prodotti televisivi come Al di là delle frontiere (2004), miniserie diretta dal bravo Maurizio Zaccaro con Sabrina Ferilli e Johannes Brandrup e La figlia di Elisa – Ritorno a Rivombrosa (2007) di Stefano Alleva, con Paolo Seganti, Anna Safroncik, Alessandra Barzaghi e Giorgio Borghetti.
Ma Pier Giorgio Bellocchio non è solo un interprete, ma anche un produttore. In primis, si occupa dell’aspetto finanziario dei film paterni. Quindi, Il sogno della farfalla (1994) con Simona Cavallari, Roberto Herlitzka e Carla Cassola, poi Sogni infranti (1995), Il principe di Homburg (1997) e tanti altri. Poi si occupa della produzione televisiva, sostenendo fiction come Torino Boys (1997), L’appartamento (1997), L’albero dei destini sospesi (1997) e Di cielo in cielo (1997). È anche il produttore di H2Odio (2006) e Chi nasce tondo (2008) e di alcuni videoclip musicali fra cui “Non resisto” di Irene Grandi.
Una sola la sua esperienza dietro la macchina da presa, in veste di regista, il primo episodio del film corale DeGenerazione (1994) e che aveva riunito Antonio Antonelli, Asia Argento, Eleonora Fiorini, Alex Infascelli, i Manetti Bros., Andrea Muala, Andrea Prandstraller, Alberto Taraglio e Alessandro Valori sotto il segno del genere horror. Il suo corto è intitolato Arrivano i nostri ed è la storia di un produttore di film horror che viene seguito e giustiziato dagli alieni. Sempre di alieni si parla nel fantascientifico 6 giorni sulla Terra (2011), di Varo Venturi, dove Pier Giorgio interpreta il Tenente Bruni. Nel 2012 recita nel film del padre Bella addormentata, presentato alla 69esima Mostra del Cinema di Venezia e ispirato alla discussa vicenda di Eluana Englaro.
Filippo Gili
Attore, regista e drammaturgo, si è Diplomato come attore presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” di Roma. Ha recitato in diverse messe in scena di Luca Ronconi. Ha diretto i lungometraggi Casa di Bambola, Prima di andar via, L’ultimo raggio di luce, e, in fase di montaggio, Il gabbiano. Ha firmato le recenti regie di Porte chiuse da Sartre, Spettri da Ibsen, Oreste da Euripide, scritto a quattro mani con Marco Bellocchio. Tre sorelle e Zio Vanja di Cechov e Amleto, con Daniele Pecci. Una nuova versione del suo Prima di andar via è stata girata, ed è ancora in fase di realizzazione, da Michele Placido. La sua Trilogia di Mezzanotte è stata uno dei più grandi successi teatrali delle ultime stagioni.
Per iscrizioni inviare Curriculum Vitae e Foto all’indirizzo altrascena@yahoo.it;
allo stesso indirizzo è possibile scrivere per avere informazioni

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