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Recensioni, Teatro, Teatro

Salvatore – Favola triste per voce sola

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Teatro Brancaccino

3 febbraio 2017

Foto di copertina di Antonio Licari.

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Salvatore – Favola triste per voce sola è un testo scritto e interpretato da Silvio Laviano.

Nato come racconto nel 2008, trasformato poi in monologo, rimase nel cassetto per un po’, fino a che il suo autore non sentì la necessità, spinto da un momento di forte crisi lavorativa e personale, di riprenderlo, dando allo stesso tempo una nuova direzione alla propria vita.

Come raccontato nella bellissima intervista che ho fatto a Silvio, Salvatore è un testo che nasce dalla crisi e dal conseguente bisogno di riappropriarsi di se stessi.

Salvatore – Favola triste per voce sola, però, non è un testo autobiografico: sicuramente contiene il vissuto dell’autore, il suo modo interiore di vedere il mondo, ma non racconta la sua storia. Salvatore non è Silvio, gli episodi raccontati non sono episodi della vita di Silvio, ma eventi un cui ognuno può riconoscersi in maniera diversa.

Eppure, anche se i fatti raccontati non sono autobiografici, non posso fare a meno di credere che i sentimenti e le emozioni che hanno dato vita a questo racconto appartengano allo stesso autore, come quel profondo bisogno di appartenersi che è stato per Silvio motivo di ripresa di questo lavoro e che tanto fortemente è espresso in Salvatore.

Salvatore è una favola triste per voce sola: una favola, perché è un racconto, anche romantico, in cui domina il ricordo; triste, perché, come tutte le favole, possiede una morale; per voce sola perché Silvio è solo sulla scena e interpreta uno, Salvatore, che a sua volta, coi suoi ricordi, fa rivivere personaggi del proprio passato (torna il valore del ricordo).

Si sarebbe potuto chiamare Salvatore – Favola melanconica per voce sola, perché Salvatore non è uno spettacolo che mette tristezza, ma che emoziona e commuove grazie alle immagini che vengono evocate.

Immagini emotive le chiama l’autore. Sulla scena, infatti, Salvatore racconta la propria vita a Catania, provincia del sud Italia che poi rappresenta un po’ tutte le province, in cinque momenti, dalla nascita fino ai trent’anni circa e lo fa attraverso l’uso di molteplici immagini che suscitano emozione.

Racconta cinque momenti, cinque età, cinque periodi evolutivi, cinque modi di essere nel mondo e nel tempo e raccontando richiama delle immagini emotive forti, molto spesso poetiche.

Ogni quadro è legato al precedente per un elemento narrativo o per una figura così come la vita è un susseguirsi di eventi concatenati. Così, il concetto dell’esser nato settimino, protagonista del primo quadro, sottende un po’ a tutta la narrazione, per tornare efficace nel finale. Nascere settimino significa essere in bilico tra la vita e la morte, significa cominciare immediatamente a lottare per mordere la vita. Significa anche, però, essere impaziente di vivere.

Nel racconto di Salvatore emergono gli odori e i sapori della Sicilia, terra di forti contrasti, le relazioni familiari e amicali, si sente il sole bruciare la pelle e l’Etna ardere, come il cuore di Salvatore, “curioso, furioso”. C’è tutta la famiglia nei suoi racconti: la madre, il padre, il fratello, la nonna col suo pollo al sugo, la zia Carmela imponente, severa e dispensatrice di abbracci che spezzano le ossa. Ci sono i parenti di Salvatore e gli amici; ci sono gli amori, quelli puri dell’infanzia, quelli eccitanti dell’adolescenza, ma gli occhi che guardano sono sempre gli stessi.

Nell’attingere ai ricordi della sua vita, Salvatore non resta ancorato al passato, ma è proiettato verso la costruzione di un futuro. Come spesso accade, per decidere di prendere in mano la propria vita e viverla nella progettualità è necessario passare per la crisi e Salvatore ci fa vivere anche le sue crisi, che siano esse dettate dal dolore o dal senso d’oppressione della società moderna, rappresentato qui dall’aria chiusa e puzzolente di un centro commerciale fatto di gente finta, incontri finti e saluti finti.

E’ questo quello che farà Salvatore alla fine del suo racconto: dirà un No secco e deciderà di abbracciare se stesso, di appartenersi, di cercare di capire, di vivere e di stupirsi ancora, come lo “scantatu ra stidda”, il pastore del presepe siciliano che per primo vede in lontananza la stella cometa e realmente la guarda, la ammira e si stupisce.

Così da “pagliaccio del destino” Salvatore arriva a saper riconoscere la morte (“la morte si può riconoscere”) e a scegliere di vivere.

Non si pensi che Salvatore – Favola triste per voce sola sia un racconto cupo: in realtà le innumerevoli immagini evocate e rappresentate sono ricche di colori accesi e toni anche molto divertenti. Racconta la vita Salvatore con momenti in cui si piange e momenti, molti momenti, in cui si ride.

Il testo è strutturato su diversi livelli: la narrazione si svolge attraverso racconti e immagini, richiami al passato e sguardo rivolto al futuro. La voce è racconto, ma anche suono, è parola che ha una sua musicalità.

La scrittura e la recitazione rimandano al “cunto” della tradizione classica siciliana che si rifà al teatro greco dal quale si è riverberato nel canto delle prefiche.

Viene utilizzato un duplice linguaggio: una sorta di io narrante parla in italiano, con cadenza sicula, mentre i racconti immaginifici ed emozionali di Salvatore trovano espressione nel siciliano (perfettamente comprensibile).

La recitazione è molto fisica. La scena è vuota, riempita solo dall’attore che non solo recita, ma interpreta giocando col viso e col corpo tenuto in costante tensione.

C’è una gestualità marcata, impegnativa, significativa: il gesto si fa segno e indica, mostra, rivela, parla.

In scena, Silvio Laviano è guidato da una regia asciutta e pulita e da un ottimo disegno di luci che crea lo spazio scenico intorno all’attore, entrambi opera di  Tommaso Tuzzoli.

Salvatore – Favola triste per voce sola racconta una storia piccola, di una città piccola, Catania, che però è una storia universale.

E’ un viaggio attraverso immagini e colori, attraverso il richiamo dei sapori e il ricordo del passato. Un viaggio allo stesso tempo divertente e malinconico alla ricerca di una rinascita e rivolto a conquistare consapevolezza di se stessi per, infine, appartenersi.

Salvatore – Favola triste per voce sola è in scena al Teatro Brancaccino all’interno della rassegna teatrale Spazio del racconto.

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Recensioni, Teatro, Teatro

Due partite. Teatro Manzoni di Milano, 3 febbraio 2017.

Recensione di Carlo Tomeo

CARLO TOMEO FOTO

“Due partite” la celebre opera che Cristina Comencini scrisse per il teatro e che fu rappresentata per la prima volta nel 2006, riportando grande successo, è ora rappresentata sul palcoscenico del Teatro Manzoni per la stagione 2016/17 con nuove interpreti e con la regia di Paola Rota.

Le due partite del titolo hanno un significato non solo effettivo ma anche metaforico: racconta di quattro amiche che si incontrano tutti i giovedì per giocare una partita a carte che in realtà permette loro di condurre un’altra partita: quella del parlare della loro vita quotidiana, delle reciproche confessioni e delle insoddisfazioni malcelate che si portano dentro. Nella camera accanto, le loro tre figlie portano avanti una partita più semplice, quella del gioco.

Le donne sono Claudia, che ha tre figli (due maschi e una femmina), conduce una vita scialba, consapevole che il marito abbia un’altra donna, ma che si illude di tenere comunque unita la famiglia “per il bene dei figli”, Gabriella, che ha abbandonato la sua carriera di pianista per occuparsi della famiglia e ora vive nel pentimento tipico della rinuncia, Sofia che ha sposato un uomo con cui non ha più alcun rapporto sessuale e ha invece un amante. Infine c’è Beatrice, incinta all’ultimo mese e prossima alle doglie.

La scena è rappresentata da due ambienti differenti, costituiti da un mobilio diverso ed essenziale avente per sfondo due pannelli che, opportunamente fatti ruotare di 180 gradi durante il breve intervallo, spostano temporalmente l’azione della commedia di 45 anni.

Il primo atto si svolge durante gli anni sessanta: l’annuncia la canzone di Nada “Ma che freddo fa” successo dell’epoca.

Le donne, durante il gioco delle carte, ne approfittano per raccontarsi gli ultimi avvenimenti, quello più triste è raccontato da Sofia che è stata lasciata dall’amante. Nel frattempo Beatrice comincia ad avere le doglie e l’atto si conclude con la corsa verso l’ospedale.

Il secondo atto, annunciato dalla rotazione fisica della struttura,che ora riporta un pannello luminoso che fa da muro, ci fa capire che sono passati degli anni, 45 per l’esattezza. Le donne hanno le fattezze simili a quelle che abbiamo visto nel primo atto, con abiti e acconciature di oggi e sono le figlie delle donne che abbiamo conosciuto prima, le tre che giocavano nell’altra stanza, più Giulia, la figlia di Beatrice. Le alte tre sono Cecilia (figlia di Claudia), Sara (figlia di Gabriella) e Rossana (figlia di Sofia). Sono reduci da un funerale e ora assistiamo a un’altra partita, non quella a carte ma quella delle parole, fatte di ricordi, di nuovi avvenimenti che vengono raccontati: Cecilia che, pur non avendo un uomo, vuole a tutti i costi avere un figlio e si sta sottoponendo a massacranti cure ormonali ed è pronta alla fecondazione artificiale. Giulia che racconta della sua insoddisfazione verso il proprio partner che la trascura. Sara che si compiace di non aver seguito la strada che la madre aveva intrapresa e ora è una pianista di fama internazionale che gira il mondo, e si cura poco del marito che ha le sue manie. Rossana, infine, che vive apparentemente una vita di coppia appagante i cui atti sessuali, però, si svolgono solo nella casa al mare dove riesce a recarsi quando il super lavoro cui è soggetta glielo consente.

Le donne si raccontano cose belle e cose meno belle, e nella loro scelta di vita, si sentono vincenti, rispetto a quella che avevano condotto le loro madri, una delle quali è morta suicida (non dirò quale) e del funerale della stessa ora esse sono di ritorno.

Sia nel primo che nel secondo tempo i dialoghi sono di diversi colori: tristi, comici, ironici, graffianti, in certi momenti sulla soglia delle offese con relative scuse. La partita a carte che le madri si concedono tutti i giovedì rappresenta una piccola valvola di sfogo a una settimana in cui vivono la loro insoddisfazione di donne incomprese. L’uomo è presente, non fisicamente, ma attraverso i dialoghi delle donne che, pensando alle loro figlie, vedono per loro un futuro migliore. In questo senso sono rivelatrici le parole di Gabriella che fa notare alle amiche che verrà il momento in cui i loro figli non saranno chiamati maschi o femmine, ma semplicemente, e correttamente, persone.

Nel secondo atto le figlie però si sentono ancora appellate come femmine, più che come persone. Il che significa che la strada da fare verso una reale parità dei sessi è ancora da percorrere tutta. È vero che, dal 2006 a oggi, alcuni progressi sono avvenuti, ma il fatto che la commedia (da cui nel 2009 fu tratto anche il film omonimo di Enzo Monteleone) sia ancora rappresentata con successo è indicativo.

Le attrici impegnate nella rappresentazione sono state tutte molto brave: un punto di merito appena in più (anche a causa della tipologia del personaggio interpretato) è da attribuire a Paola Minaccioni e Caterina Guzzanti.

La regia di Paola Rota è stata condotta nel rispetto delle peculiarità artistiche delle attrici che, una volta bene appurate, sono state potenziate. Così com’è stato rispettato il pensiero della Comencini, impegnata qual è nel riconoscimento dei diritti civili e la parità dei generi.

Il pubblico ha molto apprezzato con calorosi applausi e numerose chiamate in scena delle quattro attrici. .

Due partite

testo di Cristina Comencini

con Giulia Michelini, Paola Minaccioni, Caterina Guzzanti, Giulia Bevilacqua

produzione Artisti Riuniti

regia Paola Rota

scene e disegno luci Paolo Bovey

costumi Gianluca Falaschi

Si ringrazia la Sig.ra Rita Cicero Santalena dell’Ufficio Stampa.

In scena al Teatro Manzoni di Milano fino al 19 febbraio.

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