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Recensioni, Teatro, Teatro

Io sono il vento – Teatro India, 26 febbraio 2015

iosonoilvento

 

Io sono il vento

Di Jon Fosse

Adattamento, regia e scene Alessandro Greco.

Con Giulio Maria Corso ed Eugenio Papalia.

Al Teatro India, nel progetto di presentazione del Trittico di Jon Fosse, è andato in scena Io sono il vento, un dialogo interiore sulla vita e sulla morte che parla alle identità di tutti.

Due uomini navigano su una barca in mezzo al mare, senza una meta precisa, un viaggio verso l’ignoto.

Non è dato sapere quale sia il rapporto che li leghi, se siano padre e figlio, o due amici, oppure due sconosciuti o se sia il colloquio di un uomo con la propria coscienza.

Due uomini, due anime sole sperdute in un luogo della memoria dove le cose accadute vengono raccontate come se accadessero ora, alla ricerca di una motivazione, una spiegazione che possa dare senso non solo all’evento in sé, ma alla vita stessa.

Un dialogo che è più comunicazione interiore che conversazione; una disamina delle ragioni che portano un uomo a compiere un gesto che non è solo suo, ma avrà necessariamente conseguenze sulla vita di qualcun altro.

Una barca che è un luogo metafisico, un non luogo che nega la sua presenza nel momento in cui pretende di confermarla, che naviga in quel mare oscuro che è la vita stessa nella sua parte più profonda e nascosta all’animo umano.

Un dialogo solipsistico sulla solitudine, sulla paura della solitudine stessa, sulla paura della paura che avvolge l’anima talmente in profondità da affascinarla: una paura che respinge e attrae allo stesso tempo, proprio come il mare aperto affascina, attira, ma anche fa paura.

Giulio Maria Corso interpreta l’uno, l’uomo solo che odia il rumore, ma ha paura della solitudine, perché nella solitudine si pensa, si parla con se stessi e si realizza quanto si possa essere profondamente disperati; l’uomo continuamente in bilico tra il volere e la nolontà, la presenza e l’assenza, attratto da ciò che gli fa paura.

Eugenio Papalia è l’altro, è la voce che cerca di capire, che interroga e tenta di interpretare le parole dell’uno cercandone il senso; è l’elemento che tenta di trattenere la realtà (dei due, solo lui tocca fisicamente terra).

Quando l’uno afferma la propria nullità, tuffandosi in un nichilismo dell’anima, l’altro è pronto a fargli capire che lui è qualcosa.

Quando le parole diventano pesanti per l’uno, come pietre che stanno là, ferme, in fondo al mare, l’altro sta lì tentando di fargli capire che le parole sono rappresentazione e possono essere altro, che quelle pietre pesanti possono essere utilizzate per costruire qualcosa, come le parole formano le frasi.

Due uomini, due persone in fondo sconosciute l’una all’altra, ma soprattutto a se stesse; o forse no, forse un solo uomo: “Immaginato tutto è immaginato, ma noi non ci conosciamo, ma voglio raccontarti qualcosa…”; una barca in mezzo al mare, sbattuta dal vento, un viaggio verso l’ignoto, un viaggio che si svolge ora, ma che è già successo, un viaggio che viene raccontato da chi è sopravvissuto, sopravvissuto a se stesso, alla paura, resistendo al fascino del mare calmo che tutto inghiotte.

Io sono il vento scende nell’animo umano, nella parte oscura, quella in cui la coscienza lotta, consapevole o meno, con la ragione, laddove l’essere è anche il non essere, dove ciò che ci fa tremare ci affascina anche, dove la paura domina incontrastata, la paura di fare, la paura di essere, la paura di vivere: “io sono un muro di cemento che si crepa…no io sono la crepa…ho sempre avuto paura che accadesse, poi è successo, è semplicemente successo e adesso non ci sono più…sapevo sarebbe successo ed è accaduto…sono andato via e non ho più paura, sono come il vento, non sono più pesante…sono andato via, sono come il vento, Io sono il vento.”

Giulio Corso ed Eugenio Papalia affrontano con successo un’impegnativa prova con se stessi e col testo prima che col pubblico trasferendo su di esso tutta l’ansia, la paura, la solitudine di questi personaggi dai contorni sfumati, i cui profili si allargano fino a coinvolgerti, ad arrivare lì davanti allo spettatore mettendolo di fronte a se stesso, alla propria solitudine, diversa per ognuno, alle proprie paure.

Un testo difficile, da recitare e da cogliere, ma ben rappresentato, fortemente vissuto, intensamente trasmesso. Grande pregio di questi due bravissimi attori, tra le altre cose, una dizione e una scansione della parola che hanno agevolato la comprensione di un testo impegnativo, profondo, da interpretare e da vivere. Le parole e i pensieri arrivavano diretti, nudi, immediatamente fruibili.

Una regia intensa, attenta, precisa.

L’unico appunto che mi sento di fare, semplicemente imputabile ad una scelta di gusto personale, è che, avrei operato una scelta registica diversa nel momento in cui la scena è all’acme, in cui il pathos è maggiore, l’ansia e la disperazione esplodono. Avrei montato la scena in movimento facendo rappresentare al corpo ciò che la voce dice, urla, creando quel dinamismo che avrebbe rotto con la calma (apparente) precedente e avrebbe creato contrasto con l’altro elemento in scena in posizione statica; ma, ripeto, si tratta solo di una scelta stilistica personale.

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Danza, Recensioni

LOL (Lots of love), Protein – Auditorium Parco della Musica, 21 febbraio 2015

LOL-blog

 

 

EQUILIBRIO

PROTEIN / LUCA SILVESTRINI

LOL (Lots of love)

AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA

Ideato e diretto da Luca Silvestrini 

Con l’animazione video di Rachel Davies e la musica originale di Andy Pink,

con Jon Beney

Valentina Golfieri

Parsifal James Hurst

Sally Marie

Stuart Waters

Clemmie Sveaas

 

Lol (lots of love) è un bellissimo spettacolo, acuto, ironico, coinvolgente, espressione di un teatro-danza intenso e spiritoso; è una divertente e coinvolgente riflessione sui rapporti umani in questa società contemporanea dove i social network hanno preso il sopravvento e vengono usati e abusati da milioni e milioni di utenti.

In scena 6 danzatori, tre uomini e tre donne, che interpretano, interscambiandosi continuamente, le infinite sfaccettature e pieghe che le relazioni umane assumono nella comunicazione web e le implicazioni nella vita reale (se qualcosa di reale rimane).

Sullo sfondo, tre pannelli video proiettano immagini di persone intente a confessarsi (?), mettersi a nudo davanti alla propria web cam.

La loro danza, frenetica, veloce, scattante, raffigura e rappresenta le conversazioni che avvengono in chat e sui social in genere tra gli utenti: i corpi mimano il rumore e il ritmo dei tasti, il suono dell’invio dei messaggi, il trillo dei messaggi ricevuti; è come se venissero percorsi dalla stessa scarica elettrica della connessione, se vivessero coi loro corpi l’energia con cui i tasti vengono premuti sulla tastiera del computer, trasferendo fuori di sé le emozioni, i dubbi, la solitudine degli utenti web.

Mentre danzano, i ballerini recitano i testi delle conversazioni via chat, o delle mail, o degli stati Facebook, con tanto di punteggiatura, maiuscole, faccine, like e tutto quello che c’è intorno deridendo in questo modo una conversazione vana, vacua, che nella sua globalizzazione perde il valore intimo e personale della comunicazione tra esseri umani.

La danza è concitata, è come se le parole corressero sul palco, come se venissero vomitate violentemente senza passare per la testa, buttate lì, svuotate di significato.

Elemento simbolico presente dall’inizio alla fine è una matassa di cavi di connessione completamente e inestricabilmente intricati tra di loro che passa di mano in mano tra i vari danzatori, tra queste anime del web che si studiano, si annusano, si cercano, ma non si trovano, si incontrano, ma non si vedono realmente.

E’ la rappresentazione di come nella realtà virtuale ognuno non cerchi realmente l’altro, ma cerchi qualcuno che assomigli all’idea che dell’altro si ha; siamo solitudini che nel web si comportano come automi, pupazzetti, soggetti a delle “regole” non scritte di una comunicazione effimera, superficiale, fatta di misure, età, colore di capelli, dove ci si crea un personaggio non sempre rispondente a quello che siamo.

Al termine della rappresentazione, le fila vengono tirate con sconcertante semplicità con la canzone di John Lennon, Love che riporta lo spettatore alla realtà genuina e umile di quello che l’amore in generale dovrebbe sempre essere. Il confronto tra queste semplici, ma meravigliose e, soprattuto, vere parole, con l’esperienza cibernetica appena vissuta è sconfortante: apre gli occhi sulla solitudine e sulla incomunicabilità delle persone che si rivolgono esclusivamente al web per vivere o fingere di vivere la propria esistenza. Di fronte a queste parole, ogni sovrastruttura, ogni costruzione falsa dell’io cade, ritrovandosi nella propria miseria e affogando in essa.

Love is real, real is love/ Love is feeling, feeling love/ Love is wanting to be loved/ Love is touch, touch is love/ Love is reaching, reaching love/ Love is asking to be loved/ Love is you/ You and me/ Love is knowing/ We can be/ Love is free, free is love/ Love is living, living love/Love is needing to be loved.

lol2

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Recensioni, Teatro, Teatro

Da molto tempo non parlo con la mia terra – Teatro Brancaccino – 20 febbraio 2015 – Anteprima

damolto

 

Da molto tempo non parlo con la mia terra è un tentativo di spiegare la Sicilia attraverso le parole dei suoi più grandi autori: Salvatore Quasimodo, Tomasi di Lampedusa, Leonardo Sciascia, Giovanni Verga, Luigi Pirandello e tanti altri.

Siamo in Sicilia; la scena si apre con un riferimento al grandioso passato di questa meravigliosa terra, culla della Magna Grecia e crocevia fondamentale nel corso dei secoli, soggetta a dominazioni diverse che ne hanno segnato la storia, la cultura, l’arte e il carattere.

Ad aprire questo racconto è un Polifemo, Fabrizio Catalano, nonché regista dello spettacolo e nipote di Leonardo Sciascia.

La scena si sposta poi in un bar, luogo di incontro, chiacchiere e riflessioni. Un luogo-non-luogo che può essere qui e altrove, adesso e domani come ieri, luogo di passaggio e di incontro di vite.

In questo spazio metafisico le vite dei cinque protagonisti si incrociano e ne viene fuori il tentativo di raccontare e spiegare la Sicilia e l’essere siciliani. La risposta è ricca di sconforto, quasi scoraggiata, ma anche dolce.

“Come si può essere siciliano? Con difficoltà; dolorosa e gioiosa difficoltà”.

I protagonisti allora racconteranno se stessi, le proprie vite, illusioni e disillusioni, con le parole dei più grandi scrittori siciliani.

Ne verrà fuori un racconto nostalgico, di una terra meravigliosa e magica, spesso abbandonata dai suoi abitanti perché non offre abbastanza.

Un racconto che sa di limoni, di spiagge incontaminate, di mare cristallino, di sole, ma anche di vite isolate, di aspri silenzi, spesso colpevoli.

Nelle stesse parole dei protagonisti è reso chiaro che spiegare la Sicilia è impossibile; forse per questo il regista parlando del suo allestimento lo ha definito più un esperimento che uno spettacolo vero e proprio, e forse l’esperimento è proprio questo: portare la Sicilia agli altri, tentando di spiegarla.

La stessa caratteristica di insularità rende questa terra isolata, lontana dal continente, quasi un mondo a parte e questo elemento si trasferisce nel siciliano stesso: solitario, orgoglioso, silenzioso, contento di poco.

Da molto tempo non parlo con la mia terra è un racconto nostalgico, ma non triste; è il desiderio di ricordare le proprie radici e di celebrarle, portandone il ricco significato alla luce, agli altri.

C’è consapevolezza di un modo di essere e di pensare, ma non c’è rassegnazione: “ci hanno rubato il sole, riprendiamocelo!”.

Io che amo questa terra e i suoi abitanti, che porto negli occhi il colore del mare e l’odore degli agrumi e delle verdure, che amo i suoi cibi gustosi e ricchi, che conosco la gente di questa terra ho apprezzato molto questo allestimento. Mi sono avvicinato al significato dell’essere siciliano e mi sono ritrovato in quella difficoltà raccontata di afferrarlo e spiegarlo in pieno.

In scena Maurizio Nicolosi il barista che fa da collegamento tra i personaggi e intona canzoni di un tempo lontano; il bravo e preso Paolo Gattini, che è il saggio, l’uomo che ne ha viste e ne sa tante, l’uomo che guarda, sorride e tenta di condurre gli altri ad una pacata riflessione; Giada Colonna interpreta la siciliana per antonomasia: mora, dalle morbide curve, passionale.

Alessio D’Amico che avevo già notato con interesse e apprezzato recentemente al Festival dei Nuovi Tragici e che qui conferma grandi doti facendo intravedere per lui una buona carriera.

Infine, Goffredo Maria Bruno, Il Siciliano: geloso, possessivo, burbero, scaltro, ma pronto a recitare poesie alla propria donna. Ottima esibizione per lui.

Se di esperimento dobbiamo parlare, posso dire che le basi sono notevolmente buone; come in ogni spettacolo al suo debutto, qualcosa potrà essere migliorato, nei tempi in scena, guadagnando in scioltezza, limando o aggiungendo (questo sarà il regista a deciderlo), ma il prodotto è valido, buono e soddisfacente.

Alla fine dello spettacolo rimane una sensazione di dolce nostalgia e le parole dei grandi autori siciliani risuonano nelle orecchie, risvegliando impressioni e sensazioni. Un sentimento di leggera malinconia dove accoccolarsi, riscaldarsi, ma dal quale, poi, bisogna destarsi per risollevarsi pronti all’azione e alla reazione.

 

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